Attentato di via Rasella

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Coordinate: 41°54′09.84″N 12°29′20.41″E / 41.902734°N 12.489004°E41.902734; 12.489004

Attentato di via Rasella
Attentato di via Rasella.jpg
I resti dei militari del Polizeiregiment "Bozen" caduti nell'attentato adagiati sul ciglio della strada
Stato Repubblica Sociale Italiana Repubblica Sociale Italiana
Luogo Via Rasella[1], rione Trevi, Roma
Obiettivo 11ª Compagnia del Polizeiregiment "Bozen"
Data 23 marzo 1944
15:50 circa[2]
Tipo Attentato dinamitardo con successivo lancio di 4 bombe a mano
Morti 33 soldati tedeschi e 2 civili italiani (vedi elenco)
Feriti 55 soldati tedeschi e 11 civili italiani
Responsabili 12 partigiani dei GAP al comando di Carlo Salinari "Spartaco"
Motivazione Secondo un'intervista resa nel 1946 dal gappista Rosario Bentivegna, scuotere la popolazione romana e indurla a sollevarsi contro i tedeschi[3]; secondo la deposizione di Giorgio Amendola al processo Kappler (1948), indurre i tedeschi al rispetto dello status di Roma città aperta smilitarizzando il centro urbano[4]; secondo la Commissione storica italo-tedesca (2012), contrastare l'occupante e «scuotere la maggioranza della popolazione civile dallo stato di attesa passiva in cui versava»[5]

L'attentato di via Rasella fu un'azione della Resistenza romana condotta il 23 marzo 1944 dai Gruppi di Azione Patriottica (GAP) contro un reparto delle truppe d'occupazione tedesche, l'11ª compagnia del III battaglione del Polizeiregiment "Bozen", appartenente alla Ordnungspolizei (polizia d'ordine). Fu il più sanguinoso e clamoroso attentato urbano antitedesco in tutta l'Europa occidentale[6].

L'azione, ordinata da Giorgio Amendola e compiuta da una dozzina di gappisti (tra cui Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Rosario Bentivegna e Carla Capponi), consistette nella detonazione di un ordigno esplosivo e nel successivo lancio di quattro bombe a mano artigianali sui superstiti. Causò la morte di 33 soldati tedeschi (non si hanno informazioni certe su eventuali feriti deceduti nelle settimane successive) e di due civili italiani (tra cui il bambino Piero Zuccheretti, di 12 anni), mentre altri quattro caddero sotto il fuoco di reazione tedesco. Il 24 marzo seguì la rappresaglia tedesca consumata con l'eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui furono uccisi 335 prigionieri completamente estranei all'azione gappista, tra cui dieci civili rastrellati nelle vicinanze di via Rasella immediatamente dopo i fatti.

Sin dai giorni immediatamente successivi alla sua esecuzione, per le sue conseguenze l'attentato è stato al centro di una lunga serie di controversie, che lo hanno reso un caso paradigmatico della «memoria divisa» degli italiani[7]. L'evento è stato inoltre oggetto di vari procedimenti giudiziari, i più recenti dei quali conclusi da sentenze della Corte suprema di cassazione che lo qualificano come «legittima azione di guerra»[8].

Contesto storico[modifica | modifica wikitesto]

Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Operazione Achse, Mancata difesa di Roma e Resistenza romana.

In seguito all'annuncio dell'armistizio italiano dell'8 settembre 1943 e alla fuga del re e del governo, Roma divenne teatro di una battaglia contro i tedeschi che tuttavia riuscirono rapidamente a occupare militarmente la città. Il 9 settembre i partiti antifascisti costituirono a Roma il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), assumendosi il compito di dirigere il movimento di liberazione in tutta l'Italia occupata; il ruolo di dirigere la lotta nell'ambito locale della città di Roma fu assunto, a partire da ottobre, da una giunta militare in cui erano rappresentati i sei partiti antifascisti: Partito Comunista Italiano (PCI), Partito d'Azione (PdA), Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP), Democrazia Cristiana (DC), Partito Liberale Italiano (PLI) e Democrazia del Lavoro (DL). Inoltre, al di fuori del CLN e in rappresentanza del governo Badoglio operava il Fronte militare clandestino della resistenza (FMCR), guidato dal colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, la cui principale attività era la raccolta di informazioni sul nemico e la loro trasmissione via radio agli Alleati, non svolgendo alcun atto di resistenza armata[9]. Inoltre, notevole importanza assunse il gruppo d'ispirazione trotskista Bandiera Rossa, anch'esso indipendente dal CLN.

1944: artiglieria antiaerea tedesca nei pressi di Castel Sant'Angelo, nel pieno centro di Roma

I Gruppi di Azione Patriottica (GAP) furono l'organizzazione attraverso cui il PCI animò la guerriglia urbana: a Roma ne furono costituiti quattro (per un totale di circa trenta militanti) dotati di autonomia operativa e coordinati da un organo apposito che fu capeggiato da Antonello Trombadori fino al suo arresto, e successivamente da Carlo Salinari[10]. I GAP furono protagonisti di numerose azioni, la prima delle quali il 18 ottobre 1943, quando attaccarono con bombe a mano un corpo di guardia della Milizia; fra le azioni più importanti: un attacco con bombe a mano contro militari tedeschi il 18 dicembre; un attentato dinamitardo contro il Tribunale di guerra tedesco il 19 dicembre; un attentato con spezzoni esplosivi contro un corteo di volontari della Guardia Nazionale Repubblicana nel mese di marzo[11]. Di rilievo, tra quelle sopra menzionate, l'azione del 19 dicembre 1943, quando i GAP penetrarono in zona di alta sicurezza e fecero esplodere ordigni contro l'Hotel Flora, sede del Tribunale Militare germanico.

Lo sbarco di Anzio cambiò il quadro strategico e impose all'alto comando tedesco nuove decisioni organizzative e operative; il 22 gennaio 1944, l'intera provincia di Roma fu dichiarata "zona di operazioni" della 14ª Armata tedesca e capo della Gestapo di Roma, gestore dell'ordine pubblico, divenne il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, il quale pianificò frequenti rastrellamenti, arrestò numerosi sospetti antifascisti, organizzò in via Tasso un centro di detenzione e tortura, creò nella città un clima di terrore. I partigiani romani iniziarono allora a ricevere dagli Alleati direttive sempre più pressanti di intensificare le azioni di lotta, di non concedere tregua ai tedeschi e di preparare l'insurrezione[12], cosicché nella capitale le iniziative di lotta armata si intensificarono, allorché comunisti e azionisti, nell'illusione di un imminente arrivo degli Alleati a Roma, tentarono di sollevare la popolazione[9]. Il 2 febbraio, il dirigente del PCI Giorgio Amendola scrisse alla direzione milanese del partito che tuttavia nei giorni dello sbarco alleato

« la città era piuttosto fredda: la partita era giudicata vinta, ma vinta dalle forze militari alleate soltanto, e il dovere di contribuire alla cacciata dei tedeschi non era sentito dalla popolazione nel suo complesso. Tale passività veniva vieppiù rafforzata da voci diffusissime secondo cui un accordo era già stato stipulato in Vaticano tra i tedeschi e gli anglo-americani, in virtù del quale le autorità tedesche di occupazione si sarebbero impegnate a consegnare la città agli alleati senza dare battaglia. In questa atmosfera di attesismo (tanto più grave per il momento in cui esso si manifestava) il nostro compito era chiaro: vincere la passività della popolazione scatenando l'attacco armato contro le forze di occupazione (che abbiamo già detto essere ridottissime) e far coincidere questo attacco con la proclamazione dello sciopero generale insurrezionale[13]. »

L'insuccesso di tale tentativo insurrezionale fu seguito da un'efficace azione repressiva dei nazifascisti, i quali catturarono importanti esponenti del PdA (fra cui il capo dell'organizzazione militare del partito, Pilo Albertelli), parecchi militanti di Bandiera Rossa, il colonnello Montezemolo assieme ai suoi più stretti collaboratori, nonché vari fra i più attivi militanti del PCI fra i quali Giorgio Labò e Gianfranco Mattei[14].

Il 31 gennaio Radio Roma annunciò che, in seguito all'uccisione – avvenuta ad opera di gappisti il 1º dicembre 1943 – del tenente colonnello Gino Gobbi, comandante del distretto militare di Firenze della RSI, erano stati fucilati per rappresaglia dieci antifascisti[15]. Commentando tale comunicato il giornalista Carlo Trabucco, residente a Roma, scrisse nel suo diario[16] che era ormai chiaro che i continui attacchi contro i tedeschi sarebbero costati la vita ai loro prigionieri[17]. Lo stesso giorno, per l'uccisione di un soldato tedesco e il ferimento di un secondo, a Forte Bravetta furono passati per le armi nove prigionieri (tra i fucilati Kappler fece figurare anche un decimo, morto invece a via Tasso per le torture[18], cosicché fu annunciata la fucilazione di cinque «comunisti» e cinque «badogliani»)[19].

Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 1944 la repressione tedesca riuscì a ostacolare fortemente la resistenza partigiana: mentre il Partito d'Azione e il gruppo di Bandiera Rossa dovettero ridurre al minimo le loro attività, i GAP del centro di Roma vennero temporaneamente sciolti e i loro componenti si trasferirono nelle borgate[20]. I GAP centrali, comunque, si ricostituirono alla metà di febbraio, mentre gli Alleati intensificavano ulteriormente le loro pressioni affinché i tedeschi venissero colpiti sempre più duramente dai partigiani; secondo una testimonianza di Paolo Emilio Taviani, la presenza dei militari tedeschi nella città di Roma era un problema che preoccupava gli Alleati in vista di una ripresa dell'offensiva, cosicché si fecero sempre più pressanti le sollecitazioni ai gruppi della Resistenza romana affinché agissero[21]. A tali sollecitazioni i GAP risposero con una vera e propria escalation di azioni, che iniziò alla metà di febbraio e culminò con l'attacco di via Rasella[22].

I comunisti tentarono più volte, attraverso azioni armate, di radicalizzare il risentimento popolare contro i nazifascisti: il 3 marzo 1944, dopo che le SS ebbero abbattuto a rivoltellate Teresa Gullace (una donna facente parte del gruppo di mogli che manifestavano davanti a una caserma in cui erano rinchiusi i loro mariti rastrellati), i GAP assaltarono i militi uccidendone alcuni, e permisero così la fuga di una parte dei prigionieri[14]. Il 4 marzo[23] un gappista uccise un soldato tedesco a Centocelle in piazza dei Mirti: tre giorni dopo a Forte Bravetta furono fucilati per rappresaglia dieci prigionieri, tra cui i tre gappisti Giorgio Labò, Guido Rattoppatore e Vincenzo Gentile[24][25]; i tedeschi annunciarono l'avvenuta rappresaglia tramite un comunicato[26].

L'attacco di via Tomacelli e i piani per il 23 marzo[modifica | modifica wikitesto]

Giorgio Amendola, rappresentante comunista presso la giunta militare del CLN, ha scritto che, in seguito alle fucilazioni del 7 marzo, «per reagire alla paura bisognava colpire i tedeschi e i repubblichini», cosicché dopo i numerosi attacchi di febbraio «bisognava portare l'azione dei GAP su un piano più alto»[27]. Il 10 marzo, giorno in cui la RSI commemorava l'anniversario della morte di Giuseppe Mazzini, un corteo di fascisti che marciava con alla testa gli appartenenti alla milizia "Onore e combattimento" fu colpito in via Tomacelli dall'assalto con bombe a mano di un gruppo di gappisti. Secondo Carla Capponi, che partecipò all'azione, i fascisti riportarono tre morti e vari feriti[28].

Amendola ha dichiarato che questo attacco aveva «ricevuto molte congratulazioni per l'audacia dei gappisti, e nessuna critica o riserva»[29] e che il suo successo incoraggiò i gappisti «a proseguire con più impegno» la lotta[30].

La data scelta per il successivo attacco, il 23 marzo 1944, fu scelta non casualmente onde farla coincidere con il XXV anniversario della fondazione dei Fasci italiani di combattimento. Per l'occasione i fascisti - sotto la guida del segretario locale del Partito Fascista Repubblicano Giuseppe Pizzirani - avevano programmato una solenne commemorazione da tenersi presso il Teatro Adriano, in piazza Cavour. L'adunata fu annullata per ordine del comandante militare tedesco della piazza di Roma, il tenente generale della Luftwaffe Kurt Mälzer, temendo un attentato analogo a quello di via Tomacelli.

L'attacco in via Rasella avrebbe dovuto svolgersi in concomitanza con un'altra azione da compiersi al Teatro Adriano, in occasione della suddetta manifestazione ma, in seguito allo spostamento di quest'ultima presso il Ministero delle Corporazioni in Via Veneto, l'azione stessa fu annullata. A quest'ultimo attacco, secondo quanto dichiarato da Amendola, era prevista in base a un accordo tra lui e Pertini la partecipazione insieme ai GAP di un reparto delle Brigate Matteotti, le formazioni partigiane socialiste[29]. Nelle sue memorie, Carla Capponi ha scritto che la dinamica dell'azione sarebbe stata simile a quella di via Rasella:

« [Carlo Salinari] Mi informò che avrei dovuto fare la "mamma" con una carrozzina dentro la quale avrei sistemato la bomba gemella di via Rasella; poi, mi sarei mescolata tra la folla dei fascisti usciti dalla manifestazione, avrei acceso la miccia e l'avrei abbandonata in mezzo alla ressa dei gerarchi[31]. »

Scelta del "Bozen" come obiettivo[modifica | modifica wikitesto]

Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Polizeiregiment "Bozen".

Giorgio Amendola ha dichiarato di aver ideato l'azione partigiana[29]. Secondo quanto dichiarato dallo stesso Amendola, gli altri membri della giunta non furono informati preventivamente del piano, come da consuetudine e per «ragioni di sicurezza cospirativa». Ciò avvenne nonostante, sempre secondo Amendola, «Pertini, che mordeva il freno e che, nel suo ben noto patriottismo di partito, era geloso delle prove crescenti di capacità e di audacia date dai Gap, [avesse chiesto] che si concordasse un'azione armata unitaria»[32].

Nel dopoguerra Amendola dichiarò inoltre di aver scelto personalmente il Polizeiregiment "Bozen" come obiettivo, avendo notato la quotidiana puntualità del reggimento nel passare per via Rasella di ritorno dalle esercitazioni di addestramento a piazzale Flaminio[29]. Successivamente fu dato ordine al comando dei Gruppi di Azione Patriottica, formazioni partigiane esclusivamente dipendenti dal PCI e con rapporti solo indiretti con il CLN[33], di progettare l'attentato nei particolari operativi. Anni dopo ricordò:

« L'azione di via Rasella nacque perché sostando parecchie ore in piazza di Spagna, mi accorsi che ogni giorno il plotone tedesco della formazione "Bozen" passava alla stessa ora, con precisione teutonica. Passava cantando, quasi a sottolineare la sicurezza delle forze d'occupazione. Come comandante delle Brigate Garibaldi, decisi che fosse questo plotone l'obiettivo di una azione di carattere anche politico. Diedi al comando dei GAP l'ordine di eseguire l'attacco. Non entrai nei particolari per ragioni cospirative: spettava a loro scegliere il giorno e l'ora. Mi limitai a dare le disposizioni generali e a indicare anche il punto dell'esplosione: via Rasella[34]. »

Preparazione ed esecuzione[modifica | modifica wikitesto]

Già nei giorni precedenti il 23 marzo due membri dei GAP, "Maria", nome di battaglia di Lucia Ottobrini, ventenne impiegata, e "Giovanni", il marito Mario Fiorentini, venticinquenne studente di matematica, avevano individuato la marcia della colonna tedesca dell'Ordnungspolizei che, dopo essere entrata da Porta del Popolo provenendo dal Flaminio, imboccava via del Babuino dirigendosi verso via del Tritone; i soldati marciavano armati di fucile, di ritorno dall'addestramento al poligono di tiro[35]. Qui, costeggiando l'imbocco del traforo, all'epoca occupato dagli sfollati, entrava in via Rasella e, proseguendo, giungeva al Viminale (già sede del Ministero dell'Interno, dal dicembre del 1943 trasferito a Salò) dove era acquartierata. I due militanti informarono altri due membri, "Paolo", nome di battaglia del ventiduenne studente di medicina Rosario Bentivegna, e "Elena", Carla Capponi, venticinquenne impiegata di un laboratorio chimico[35].

Rosario Bentivegna.jpg Carla Capponi 1.jpg
Rosario Bentivegna, "Paolo" Carla Capponi, "Elena"

Per alcuni giorni i quattro gappisti studiarono il percorso dai militari tedeschi. La colonna marciava in pieno assetto di guerra, cantando Hupf, mein Mädel[36] (Salta, ragazza mia), su ordine dal maggiore Dobek con dure punizioni per chi non avesse cantato (sebbene fosse intonato molto controvoglia dai militari altoatesini, che si sentivano ridicoli)[37][38]. I soldati appartenevano alla 11ª compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment "Bozen", composta da 156 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, altoatesini arruolati nella polizia in seguito all'occupazione tedesca dopo il 1º ottobre 1943 delle province di Bolzano, Trento e Belluno (riunite nel cosiddetto "Alpenvorland", sul quale la sovranità della RSI era nominale)[39].

In seguito ai diversi appostamenti, si appurò che tale compagnia percorreva quotidianamente lo stesso tratto di strada alla stessa ora (verso le due del pomeriggio); in un primo tempo i quattro militanti proposero a "Spartaco", il nome di battaglia di Carlo Salinari il responsabile del GAP centrale, di lanciare alcune granate nel momento in cui i militari nemici avessero girato da via Rasella in via Quattro Fontane, ma il dirigente partigiano ritenne questo piano troppo limitato e decise invece di studiare un attacco più ambizioso con la partecipazione di molti elementi del GAP romano[40][41].

Si decise, riporta Fracassi, che il punto più favorevole per attaccare la colonna sarebbe stata via Rasella, una strada piuttosto stretta in salita attraversata dal solo incrocio con via Boccaccio, in cui erano presenti pochi negozi e locali; inoltre nel primo pomeriggio, quando anche le poche botteghe presenti rimaneva chiuse, appariva molto poco frequentata[42].

Nel frattempo, dopo il discorso di papa Pio XII del 12 marzo contro la guerra aerea e l'invito rivolto a entrambe le parti belligeranti a non rendere Roma un campo di battaglia, a partire dal 19 marzo iniziarono a diffondersi voci sulla fuoriuscita dei tedeschi dalla città. Il 22 marzo Bruno Spampanato, direttore de Il Messaggero, annunciò che prossimamente il comando tedesco avrebbe ritirato le sue truppe da Roma e anche evitato il loro passaggio all'esterno della città, in modo da non dare agli Alleati motivi per bombardare. La notizia suscitò grandi speranze tra la popolazione[43].

Carta che illustra la dinamica dell'attacco partigiano e le posizioni dei gappisti

Per l'esecuzione dell'attacco furono impiegati i GAP centrali che già dal periodo successivo all'8 settembre 1943 avevano compiuto numerose azioni di guerriglia urbana nella zona del centro storico. I partigiani che avrebbero partecipato all'azione sarebbero stati numerosi: uno di essi, travestito da spazzino, al segnale convenuto avrebbe dovuto innescare un ordigno nascosto all'interno di un carrettino della nettezza urbana, mentre gli altri, ad esplosione avvenuta, avrebbero dovuto attaccare con pistole e bombe a mano la compagnia.

Salinari ha in seguito testimoniato che i partigiani erano così disposti:
Bentivegna accanto al carretto, Carla Capponi (che aveva un impermeabile nascosto, da mettere addosso allo stesso Bentivegna per coprirne la divisa da spazzino, ed una pistola sotto i vestiti), in cima alla via; Fernando Vitagliano, Francesco Curreli, Raul Falcioni, Guglielmo Blasi ed altri, vicino al Traforo; nei pressi Silvio Serra; all'angolo di via del Boccaccio si trovava Franco Calamandrei. Alcuni altri gappisti erano sistemati per coprirne la fuga. In totale, prepararono o parteciparono all'azione diciassette partigiani; oltre ai nove citati anche Giulio Cortini, Laura Garroni, Duilio Grigioni, Marisa Musu, Ernesto Borghesi, Pasquale Balsamo, Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini (quest'ultima partecipò solo alla preparazione del carico di tritolo ma non all'azione, perché malata)[44].

L'edificio all'angolo di via del Boccaccio crivellato di colpi in una foto del 2005[45]

Il compito di far brillare l'esplosivo fu affidato al partigiano Rosario Bentivegna ("Paolo"), il quale il 23 marzo travestito da spazzino partì dal deposito gappista nei pressi del Colosseo verso via Rasella, con il carretto contenente un ordigno composto da, secondo il suo racconto, «uno spezzone di ghisa riempito con dodici chili di tritolo, più altri sei chili di tritolo sfusi sopra, con altri pezzi di ghisa sparsi di misura diversa»[46]. I gappisti dovettero attendere circa due ore in più rispetto alla consueta ora di transito della compagnia nella via; il giovedì 23 marzo 1944 i soldati del "Bozen" erano partiti in ritardo dopo l'esercitazione di tiro effettuata al poligono di Tor di Quinto e solo alle ore 15.45 la colonna sbucò da Largo Tritone e girò verso via Rasella; i militari marciavano con "il colpo in canna" e in questa occasione avevano ricevuto l'ordine di non cantare fino a quando non fossero giunti alla fine del percorso; secondo il Fracassi, è possibile che il comando tedesco temesse complicazioni in questa giornata di ricorrenza fascista[47].

Poiché il plotone tedesco era seguito da un piccolo gruppo di bambini, Portelli riferisce che Bentivegna e alcuni altri gappisti li fecero allontanare per evitare che fossero coinvolti nell'esplosione, e che Bentivegna fece inoltre allontanare alcuni operai e chiese ad Orfeo Ciambella, un guardiano di magazzino che era appostato all'ingresso, di rientrare (quest'ultimo però non seguì l'avvertimento e rimase seriamente ferito dall'esplosione)[48]. Alle 15:52 Bentivegna accese con il fornello di una pipa la miccia, preparata per innescare l'esplosione dopo circa 50 secondi, tempo necessario ai tedeschi per percorrere il tratto di strada compreso tra il punto a valle usato per la segnalazione ed il carretto, posizionato in alto davanti a Palazzo Tittoni.

Calamandrei si tolse il copricapo (segnale per avvisare Bentivegna che i tedeschi si stavano avvicinando e che quindi doveva accendere la miccia ed allontanarsi velocemente). L'effetto dell'esplosione fu accresciuto dalla susseguente indotta esplosione, riportata da testimonianze, delle granate che i militari del "Bozen" avevano tutti alla cintola[49]. La potenza della deflagrazione fu tale da scardinare le porte e le finestre del collegio scozzese nei pressi di via Rasella, oltre a mandarne in frantumi i vetri[50]. I soldati, credendo che le bombe fossero lanciate dall'alto, risposero sparando contro i piani elevati degli edifici circostanti[51].

Subito dopo l'esplosione due squadre dei GAP, una composta da sette uomini l'altra da sei, sotto il comando di Franco Calamandrei "Cola" e Carlo Salinari "Spartaco", lanciarono quattro bombe da mortaio Brixia modificate per essere usate come bombe a mano (delle quali esplosero solo tre)[52]. Dopo il lancio delle bombe a mano, i gappisti Raoul Falcioni, Silvio Serra, Francesco Curreli e Pasquale Balsamo impegnarono i tedeschi in uno scontro a fuoco, mentre Capponi e Bentivegna si misero in salvo raggiungendo poi Carlo Salinari che li attendeva in piazza Vittorio[53].

Nell'azione rimasero uccisi due civili: il bambino Piero Zuccheretti (il quale, forse, era entrato in via Rasella dall'angolo con via del Boccaccio, quindi vicino al carretto, nell'attimo della sua esplosione, mentre Bentivegna si allontanava), e un altro civile mai identificato con sicurezza, di cui non si sa se rimase vittima dell'esplosione stessa o della successiva sparatoria[54]. Tutti e dodici i gappisti protagonisti dell'attentato restarono illesi e sfuggirono alla cattura da parte dei tedeschi.

Caduti[modifica | modifica wikitesto]

Militari del "Bozen"[modifica | modifica wikitesto]

Segue la lista dei trentatré militari del Polizeiregiment "Bozen" uccisi[55] (tutti ricoprenti il grado di Unterwachtmeister, il più basso della gerarchia della polizia d'ordine dopo quello di allievo)[56].

Nome Data di nascita Età Luogo di nascita
1 Karl Andergassen 5-1-1914 30 Kaltern / Caldaro
2 Franz Bergmeister 6-9-1906 37 Kastelruth / Castelrotto
3 Josef Dissertori 5-6-1913 30 Eppan / Appiano
4 Georg Eichner 21-4-1902 41 Sarnthein / Sarentino
5 Jakob Erlacher 12-7-1901 42 Enneberg / Marebbe
6 Friedrich Fischnaller 19-11-1902 41 ND
7 Johann Fischnaller 17-11-1904 39 Mühlbach / Rio di Pusteria
8 Eduard Frötscher 19-12-1912 31 Latzfons / Lazfons (frazione di Klausen / Chiusa)
9 Vinzenz Haller ND ND Ratschings / Racines
10 Leonhard Kaspareth 28-1-1915 29 Kaltern / Caldaro
11 Johann Kaufmann 19-10-1913 30 Welschnofen / Nova Levante
12 Anton Matscher 12-6-1912 31 Brixen / Bressanone
13 Anton Mittelberger 15-11-1907 36 Gries (frazione di Bolzano)
14 Michael Moser 29-9-1904 39 Kitzbühel (Austria)
15 Franz Niederstätter 1-6-1917 26 Aldein / Aldino
16 Eugen Oberlechner 30-4-1908 35 Mühlwald / Selva dei Molini
17 Mathias Oberrauch 15-8-1910 33 Bolzano
18 Paulinus Palla 31-12-1915 28 Buchenstein / Livinallongo del Col di Lana
19 Augustin Pescosta 9-5-1912 31 Kolfuschg / Colfosco (frazione di Corvara in Badia)
20 Daniel Profanter 22-5-1915 28 Andrian / Andriano
21 Josef Raich 14-12-1906 37 St. Martin / San Martino in Badia o San Martino in Passiria
22 Anton Rauch 5-8-1910 33 Völs / Fiè allo Sciliar
23 Engelbert Rungger 21-12-1907 36 Welschellen / Rina (frazione di Marebbe)
24 Johann Schweigl 13-8-1908 35 St. Leonhard / San Leonardo in Passiria
25 Johann Seyer 3-6-1904 39 Gais
26 Ignatz Spiess 4-7-1911 32 Schweinsteg / Sant'Orsola (frazione di San Leonardo in Passiria)
27 Eduard Spögler 11-7-1908 35 Sarnthein / Sarentino
28 Ignatz Stecher 11-5-1911 32 Schluderns / Sluderno
29 Albert Stedile 26-6-1915 28 Bolzano
30 Josef Steger 10-8-1908 35 ND
31 Hermann Tschigg 23-4-1911 32 St. Pauls / San Paolo (frazione di Appiano)
32 Fidelius Turneretscher 19-1-1914 30 Untermoi / Antermoia (frazione di San Martino in Badia)
33 Josef Wartbichler 13-11-1907 36 ND
Militare tedesco in via Rasella immediatamente dopo l'attentato

Ventisei uomini caddero nell'immediatezza dell'esplosione e altri nelle ore successive per le ferite riportate; alle ore otto del mattino del 24 marzo si contarono trentadue morti, numero in base al quale fu calcolato il numero di prigionieri da fucilare secondo la proporzione di dieci per ogni soldato ucciso. In seguito morì un trentatreesimo militare (Vinzenz Haller), cosicché Kappler aggiunse di sua iniziativa all'elenco dei condannati a morte i nomi di dieci ebrei arrestati in mattinata[57][58].

Non sono note le generalità dei deceduti nei giorni successivi e non se ne conosce il numero preciso. Kappler, negli atti del processo a suo carico, indica un totale di quarantadue caduti, cifra però non suffragata da documenti[59]. Lo stesso numero, insieme a quello di otto civili italiani caduti, è riportato nelle memorie del generale Siegfried Westphal, all'epoca capo di stato maggiore presso il comando del fronte sud-ovest, il quale afferma che i decessi successivi ai 33 iniziali non furono comunicati a Hitler per non alimentare ulteriormente la sua ira[60].

Civili italiani[modifica | modifica wikitesto]

Vittime dell'esplosione
  1. Antonio Chiaretti (anni 48, dipendente della TETI, partigiano di Bandiera Rossa[61], in seguito più volte indicato come caduto in combattimento[62])
  2. Piero Zuccheretti (anni 12)
Vittime del fuoco di reazione tedesco
  1. Annetta Baglioni (anni 66, domestica, affacciatasi alla finestra fu colpita alla testa da un proiettile)[63]
  2. Pasquale Di Marco (anni 34)
  3. Enrico Pascucci (dipendente della TETI, partigiano di Bandiera Rossa)
  4. Erminio Rossetti (autista del questore Pietro Caruso; giunto sul posto e sceso dall'auto di servizio in borghese e con la pistola in pugno, fu ucciso perché scambiato per partigiano)[64]

Tra i civili si contarono undici feriti[63]. L'Agenzia Stefani, il 26 marzo, riportò in tutto sette morti italiani, indicandoli come «quasi tutti donne e bambini» e attribuendoli interamente ai «comunisti badogliani»[65].

Il rastrellamento dopo l'attentato[modifica | modifica wikitesto]

Lapide in memoria dei rastrellati di via Rasella uccisi alle Fosse Ardeatine, affissa in via delle Quattro Fontane il 24 marzo 2010. È l'unica targa commemorativa presente sui luoghi delle vicende del 23 marzo 1944.

Immediatamente dopo la cessazione dei combattimenti in via Rasella, i superstiti del "Bozen" - coadiuvati da altre forze tedesche e fasciste affluite sul posto - iniziarono a rastrellare la popolazione della zona circostante, arrestando abitanti e passanti; i rastrellati furono allineati sotto la minaccia delle armi contro la cancellata di accesso a Palazzo Barberini e quindi condotti in parte presso l'intendenza della PAI, in parte presso il palazzo del Viminale[66]. In particolare, nelle cantine del Viminale furono ammassate circa 300 persone e trattenute per accertamenti sino alla mattina successiva; dieci di questo gruppo furono poi uccisi alle Fosse Ardeatine: Angelo e Umberto Pignotti, Antonio Prosperi, Fulvio Mastrangeli, Ettore Ronconi, Cosimo D'Amico, Guido Volponi, Celestino Frasca, Ferruccio Caputo e Romolo Gigliozzi[67]. I componenti di questo gruppo provenivano almeno in parte dall'immobile all'angolo di via del Boccaccio[68].

L'eccidio delle Fosse Ardeatine[modifica | modifica wikitesto]

Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Eccidio delle Fosse Ardeatine.
Il comunicato tedesco successivo all'eccidio delle Fosse Ardeatine riprodotto su La Stampa del 26 marzo 1944

Il giorno immediatamente successivo a quello dell'attentato, seguì l'Eccidio delle Fosse Ardeatine, rivendicato dal "Comando Tedesco" espressamente come rappresaglia per l'attentato di via Rasella[69].

La ricostruzione del processo decisionale che condusse all'eccidio presenta rilevanti margini d'incertezza, in quanto si basa principalmente sulle deposizioni difensive rese dagli uomini dell'esercito tedesco nei processi che ebbero luogo nel dopoguerra[70]. Secondo tali fonti, il colonnello Dietrich Beelitz (capo ufficio operazioni dello stato maggiore del feldmaresciallo Albert Kesselring, massima autorità militare tedesca in Italia) avrebbe dapprima ricevuto, dal comando supremo in Germania, l'ordine proveniente dallo stesso Adolf Hitler di evacuare l'intero quartiere ove si trova via Rasella, farlo saltare in aria e fucilare cinquanta civili per ogni soldato tedesco morto nell'attentato; tuttavia tale disposizione di Hitler non sarebbe stata presa in seria considerazione dallo stesso Beelitz, in quanto da lui valutata come "uno sfogo d'ira del momento"; successivamente altri ordini di Hitler, pervenuti la sera del 23 marzo, avrebbero imposto di fucilare dieci italiani per ogni tedesco morto, e di eseguire tale rappresaglia entro ventiquattr'ore. Di tali presunti ordini di Hitler non esistono peraltro né tracce scritte, né testimonianze dirette[71].

Nella tarda serata del 23, mentre già era in corso di compilazione la lista degli ostaggi da fucilare, Kappler diede ordine di cercare gli attentatori, ma senza curarsi dell'esecuzione di tale direttiva e senza attivare la polizia italiana; secondo una sentenza del dopoguerra, «La ricerca degli attentatori non costituì l'attività prima del comando di polizia tedesca, ma fu effettuata in maniera blanda come azione marginale e successiva alla preparazione degli atti di rappresaglia»[57]. Né la radio tedesca né quella repubblichina diedero notizia dell'attentato (fu anzi diramata una velina con l'ordine di non parlarne)[72].

L'eccidio delle Fosse Ardeatine ebbe luogo il 24 marzo. Soltanto il giorno dopo, a mezzogiorno del 25 marzo, i tedeschi diedero (assieme alla notizia di avere già eseguito la rappresaglia) notizia ufficiale dell'attentato, mediante la pubblicazione sui giornali del seguente comunicato, che era stato emanato dal comando tedesco di Roma alle 22:55 del 24 marzo:

« Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di Polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, 32 uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti.

La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento anglo-americano.

Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest'ordine è già stato eseguito.[73] »

Tra le vittime della strage vi furono il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e Pilo Albertelli, comandanti rispettivamente della resistenza militare e delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d'Azione. Il totale dei caduti fu 335: alla cifra di 320 stabilita dagli ordini superiori Kappler aggiunse di sua iniziativa altre quindici persone (dieci per il trentatreesimo soldato morto e cinque per errore), la cui uccisione non fu resa nota, cosicché tutti i comunicati e gli articoli pubblicati in quei giorni annunciarono l'uccisione di 320 prigionieri.

Le reazioni[modifica | modifica wikitesto]

Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Reazioni all'attentato di via Rasella e all'eccidio delle Fosse Ardeatine.

La posizione della Santa Sede[modifica | modifica wikitesto]

Il 26 marzo L'Osservatore Romano pubblicò il comunicato tedesco che annunciava l'attentato e l'avvenuta rappresaglia, facendolo seguire da un commento non firmato che esprimeva pietà per le vittime di entrambi gli e eventi e li condannava entrambi: «Trentadue vittime da una parte: trecentoventi persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all'arresto, dall'altra». Il testo si concludeva con un appello: «non si può, non si deve spingere alla disperazione ch'è la più tremenda consigliera ma ancora la più tremenda delle forze, invochiamo dagli irresponsabili il rispetto per la vita umana che non hanno il diritto di sacrificare mai; il rispetto dell'innocenza che ne resta fatalmente vittima; dai responsabili la coscienza di questa loro responsabilità verso se stessi, verso le vite che vogliono salvaguardare, verso la storia e la civiltà»[74]. La posizione assunta dal Vaticano è stata oggetto di dibattito e di polemiche, in quanto alcuni autori hanno individuato nel comunicato l'origine della tesi secondo cui l'eccidio fu l'effetto della mancata presentazione degli attentatori alle autorità tedesche[75][76]. Si è discusso inoltre dell'esistenza della possibilità che papa Pio XII intervenisse per scongiurare la rappresaglia.

La posizione del CLN[modifica | modifica wikitesto]

Giorgio Amendola 1948.jpg Giuseppe Spataro 1948.jpg
Giorgio Amendola e Giuseppe Spataro, rappresentanti rispettivamente di PCI e DC nella giunta militare, protagonisti di un'«aspra discussione» sull'opportunità che il CLN rivendicasse l'attentato o al contrario se ne dissociasse

La giunta militare si riunì nel pomeriggio del 26 marzo, nel bel mezzo della crisi che il CLN attraversava da febbraio e che, proprio la mattina del 24 marzo, aveva spinto il suo presidente Ivanoe Bonomi a rassegnare le dimissioni, a causa delle liti intestine tra le correnti di destra e di sinistra e del sospetto che queste ultime stessero preparando un governo rivoluzionario[77]. Secondo le memorie di Giorgio Amendola, durante la riunione egli chiese che fosse emanato un comunicato che, oltre a condannare l'eccidio, rivendicasse l'azione partigiana. Tuttavia, quest'ultima proposta trovò l'opposizione del delegato della Democrazia Cristiana, Giuseppe Spataro, il quale contestò l'opportunità dell'attentato e al contrario chiese un comunicato di dissociazione, proponendo inoltre che ogni futura azione fosse preventivamente approvata dalla giunta. A quel punto Amendola replicò che, nel caso in cui la proposta democristiana fosse stata approvata, i comunisti sarebbero stati «costretti a prendere la [loro] libertà d'azione, anche a costo di uscire dal CLN». Poiché le deliberazioni venivano prese solo all'unanimità, nessuna delle due mozioni fu approvata, cosicché Amendola dichiarò «con una certa indignazione» che i comunisti si sarebbero autonomamente assunti «con fierezza» la responsabilità dell'attentato. La rivendicazione del PCI avvenne su l'Unità clandestina del 30 marzo tramite un comunicato dei GAP scritto da Mario Alicata, in cui tra l'altro si affermava che, in risposta al «comunicato bugiardo ed intimidatorio del comando tedesco»[78], le azioni gappiste a Roma non sarebbero cessate «fino alla totale evacuazione della capitale da parte dei tedeschi»[79].

Su sollecitazione del segretario socialista Pietro Nenni, il 31 marzo Bonomi accettò di scrivere a nome del CLN «una nota di indignazione e di protesta» verso la strage delle Fosse Ardeatine. Il comunicato fu il risultato di un compromesso trovato dopo una serie di riunioni, discussioni e proposte di mediazioni, delle quali in mancanza di documentazione non è mai stato possibile ricostruire l'andamento. Sebbene comparve sulla stampa clandestina a metà aprile, per nascondere l'esitazione e il dissenso interni[80] e farlo risultare anteriore al comunicato del PCI, era retrodatato al 28 marzo. Definito l'attentato «un atto di guerra di patrioti italiani», il comunicato del CLN vedeva nell'eccidio «l'estrema reazione della belva ferita che si sente vicina a cadere», alla quale le «forze armate di tutti i popoli liberi», ossia gli eserciti alleati avanzanti, avrebbero presto inferto «l'ultimo colpo», senza alcun riferimento alla prosecuzione delle azioni partigiane invocata dal comunicato comunista. Secondo Enzo Forcella, il CLN avallò a posteriori l'attentato «per un senso di responsabilità politica» e per non «rendere insanabile una crisi che avrebbe avuto incalcolabili conseguenze su tutti gli sviluppi della lotta di liberazione», ma non confermando il proclama del PCI sulla guerriglia a oltranza avrebbe fatto capire che azioni analoghe all'interno della città non sarebbero più state sottoscritte[81].

Effetti sulla guerra antipartigiana[modifica | modifica wikitesto]

Il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante supremo delle forze tedesche in Italia

Secondo quanto riferito nel 1949 dal diplomatico Eugen Dollmann, insieme alla rappresaglia fu prevista un'ulteriore misura punitiva: il comandante supremo delle SS Heinrich Himmler ordinò al suo luogotenente in Italia, generale Karl Wolff, di organizzare «l'esodo forzoso dalla capitale della popolazione maschile dei quartieri più pericolosi, famiglie comprese, rastrellando le persone fra i diciotto e i quarantacinque anni»[82]. Per eseguire l'operazione, Wolff giunse a Roma la sera del 24 marzo (poche settimane prima aveva represso con delle deportazioni lo sciopero generale nel Nord Italia)[83]. Tuttavia Kesselring fece presente che la deportazione di circa un milione di persone avrebbe reso necessario un dispiegamento di truppe tale da sguarnire il fronte di Anzio, cosicché il progetto venne accantonato[84].

L'azione partigiana indusse inoltre i tedeschi a intensificare le misure per la sicurezza delle truppe. Lo stesso 23 marzo, alle truppe dipendenti dal comandante supremo del sud-ovest fu ordinato: «In futuro nelle località maggiori si dovrà marciare soltanto in ordine sparso, con adeguata protezione alla testa, alle spalle e ai fianchi. Durante la marcia le armi devono essere costantemente pronte a sparare. Bisogna rispondere immediatamente qualora dalle case venga fatto fuoco o si verifichino analoghi fatti ostili». In aggiunta, il 7 aprile Kesselring dispose: «Contro le bande si agirà con azioni pianificate. Bisogna inoltre garantire la continua sicurezza della truppa contro attentati e attacchi. [...] In caso di attacco, aprire immediatamente il fuoco senza curarsi di eventuali passanti. Il primo comandamento è l'azione vigorosa, decisa e rapida. Chiamerò a rendere conto i comandanti deboli e indecisi, perché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wehrmacht tedesca. Data la situazione attuale, un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione»[85].

L'impatto dell'attentato sull'evoluzione della guerra antipartigiana è stato molto discusso: Lutz Klinkhammer ritiene che segnò una «cesura mentale per i comandi tedeschi in Italia», mentre Carlo Gentile, non riscontrando cambiamenti significativi nell'evoluzione della "guerra ai civili", la quale già dall'autunno 1943 aveva conosciuto episodi di estrema violenza al Sud, scrive che risulta «difficile ritenere che le sue immediate conseguenze fossero davvero determinanti» e che le fonti non permettono di «affermare sulla base di prove concrete che la politica di repressione abbia subito trasformazioni decisive o si sia inasprita, almeno in un primo tempo», proseguendo nelle forme che aveva già assunto. Secondo Gentile, le offensive antipartigiane nelle retrovie della 14ª Armata iniziate alla fine di marzo non furono una conseguenza dell'impressione dell'attentato, ma del fatto che la momentanea sospensione dei combattimenti sul fronte di Cassino, a partire dal 23 marzo, rese possibile la destinazione di forze alla lotta antipartigiana[86].

La Resistenza romana dopo via Rasella[modifica | modifica wikitesto]

Franco Calamandrei scrisse sul suo diario che dopo l'attentato vi furono discussioni all'interno del PCI romano sull'opportunità di intensificare la lotta o fermarla: inizialmente sembrò prevalere la prima alternativa, tuttavia infine si optò per un'interruzione, «ma purché si diffondano nella sosta manifestini alla popolazione e ai tedeschi, i quali minaccino una ripresa terroristica se entro un termine certo l'evacuazione non sarà effettiva»[87].

Sul punto le memorie di Rosario Bentivegna sono parzialmente divergenti: la notizia del massacro delle Fosse Ardeatine, appresa il 25 marzo a mezzogiorno, spinse lui e i suoi compagni, in accordo con il comando dei GAP, a voler vendicare i trucidati con un attacco simile a quello di via Rasella. Bentivegna ricorda così lo stato d'animo dei gappisti: «Non ci sentivamo in nessuna misura responsabili dei metodi e delle ritorsioni naziste. Ma quei metodi e quella rappresaglia e la morte dei nostri compagni e la presenza di quei nemici erano ormai diventati più forti della voglia di vivere o della paura di morire». Si decise quindi di effettuare un attacco con bombe a mano, già messo a punto, contro un camion che trasportava il corpo di guardia della Gestapo da Regina Coeli alla caserma, programmando di colpirlo in largo Tassoni a mezzogiorno del 28 marzo. Alle ore 11:45 del giorno stabilito, mentre i gappisti erano già tutti ai loro posti, una «trafelata» staffetta portò l'ordine perentorio di sospendere l'attacco. Bentivegna ritiene tale decisione una conseguenza del disaccordo su via Rasella sorto nel CLN, che avrebbe determinato il momentaneo imporsi di un «neo-attendismo», rimosso «in seguito a una dura battaglia politica» alcuni giorni più tardi, quando era ormai sfumato «l'effetto politico e militare che avrebbe potuto avere un'immediata durissima reazione alla rappresaglia nemica»[88].

Il rapporto tra l'attentato e la rappresaglia[modifica | modifica wikitesto]

L'attentato di via Rasella rappresenta, dato il suo legame con l'eccidio delle Fosse Ardeatine, uno dei principali argomenti di riflessione sull'opportunità degli attentati partigiani alla luce del ricorso alla pratica della rappresaglia da parte dei tedeschi e dei fascisti[87].

Il problema delle rappresaglie[modifica | modifica wikitesto]

Le rappresaglie dieci a uno

In un'opera del 1995 sui crimini di guerra tedeschi in Italia, Friedrich Andrae ha scritto che la pratica di fucilare dieci prigionieri per ogni soldato tedesco caduto «corrisponde all'uso nei territori di competenza del comandante in capo del fronte sud-ovest»[89]. In un volume del 2015 sullo stesso argomento, Carlo Gentile scrive che, contrariamente a quanto ritenuto da molti, nell'Italia occupata non esistevano disposizioni che imponessero un numero preciso di ostaggi da fucilare e che il «ricorrente» rapporto di dieci a uno, a cui spesso ci si ispirava, fu soggetto a numerose eccezioni, venendo alterato sia per eccesso che per difetto in base alle disposizioni dei comandi locali[90].

Claudio Pavone osserva come i nazisti, conformemente alla loro concezione di "guerra totale", dessero al termine "rappresaglia" un significato molto ampio[91]. Per i tedeschi, infatti, non solo i prigionieri partigiani, ma anche i loro familiari e l'intera popolazione civile «diventarono potenzialmente ostaggi in mano degli occupanti»[92]. Stante la pratica invalsa dall'esercito nazista di attuare rappresaglie indiscriminate[93], varie furono le posizioni assunte dai diversi gruppi di resistenti, posti di fronte alla prospettiva di provocare ritorsioni sui compagni di lotta prigionieri o sui civili: in particolare tra i partiti moderati del CLN e le formazioni militari, volendo evitare le rappresaglie, era diffuso un atteggiamento più prudente verso la lotta armata; atteggiamento criticato come "attendismo" o "attesismo" da quelle forze, soprattutto il PCI, che al contrario sostenevano la necessità di attaccare ugualmente gli occupanti[94].

Sempre secondo Pavone, gli «atteggiamenti assunti dai resistenti di fronte alle rappresaglie nazifasciste si collocano lungo una linea che a un estremo ha la controrappresaglia partigiana, attraversa le posizioni di coloro che pur tenendo conto delle possibilità di rappresaglie non intendono comunque farsi dissuadere dalla lotta, e riscontra all'altro estremo una forte incentivazione all'attesismo in nome del risparmio di vite umane». Pavone ritiene che, fra i resistenti, «il punto focale del dissenso», al riguardo, stesse nell'accettare o meno che la rappresaglia funzionasse come «strumento di garanzia» a favore del nemico, in quanto piegarsi «di fronte alle rappresaglie poteva essere considerato - questo era il punto - un implicito riconoscimento del diritto del nemico a esercitarle»[95]. Di contro, Pavone cita alcuni documenti partigiani da cui si evince la preoccupazione (talora espressa in polemica con le formazioni comuniste) di non esporre la popolazione civile alle rappresaglie nemiche, e osserva come proprio l'attentato di via Rasella sia «forse l'episodio che ha maggiormente alimentato questo tipo di riflessione»[87].

La posizione, circa il problema delle rappresaglie, del Comando militare per l'Alta Italia del CLN si trova esposta in un documento del febbraio 1944, dove era prescritto che «evitare o limitare i motivi di rappresaglia» andasse fatto «tutte le volte che fosse possibile», aggiungendo tuttavia che «la preoccupazione della rappresaglia non deve costituire un impedimento insuperabile all'azione e tanto meno rappresentare una mascheratura della non capacità e volontà di agire»[96]. A livello nazionale, comunque, una differenza fra i comunisti e gli altri partiti del CLN (specialmente la Democrazia cristiana e il Partito liberale) consiste nel fatto che questi ultimi sono decisamente contrari allo «scatenamento del terrorismo urbano», e ciò sia per riserve di carattere morale, sia per il timore delle rappresaglie tedesche. Secondo Santo Peli, l'azione di tipo terroristico condotta dai GAP, se «evidenzia la diversità comunista nel panorama dell'antifascismo italiano» (orgogliosamente rivendicata dai comunisti stessi), giunge d'altra parte «a mettere a dura prova la scelta e la necessità di condurre la lotta in modo unitario» con le altre componenti del CLN[97].

La situazione a Roma[modifica | modifica wikitesto]

Eugenio Colorni, capo partigiano socialista

A Roma l'"attesismo" trovava maggior vigore che nel Nord Italia, secondo lo storico Roberto Battaglia a causa della presenza del Vaticano, definito «il più potente degli alleati o dei promotori dell'attesismo»[98]. Il 30 ottobre 1943, in risposta all'eccidio di Pietralata, L'Italia libera (il giornale organo del Partito d'Azione) pubblicò un comunicato nel quale si diceva fra l'altro: «A ogni crocicchio, dietro ogni albero, in ogni angolo del paese i nazisti attendano di vedere sorgere il profilo d'un vendicatore... Il popolo italiano non deve temere le rappresaglie. Rappresaglia chiama rappresaglia e l'arma dell'intimidazione si ritorce su chi l'usa»[99]. Tuttavia Eugenio Colorni, uno dei principali capi partigiani socialisti a Roma, in un documento del novembre 1943, in merito alla linea di condotta dei tre partiti di sinistra (socialista, comunista e d'Azione), scrisse: «Per il momento vengono eseguite e raccomandate solo azioni contro i fascisti (in particolare contro le spie). Le azioni contro i tedeschi sono permesse solo quando sia possibile eliminarne ogni traccia, perché altrimenti darebbero luogo a troppo gravi rappresaglie. E principalmente quello a cui si mira sono le azioni di sabotaggio. Moltissime ne vengono progettate e preparate, molto meno eseguite»[100]. Il 13 dicembre le direzioni romane dei tre partiti di sinistra illustrarono la loro linea d'azione alle rispettive direzioni del nord con un documento che, in merito alla lotta armata, dichiarava:

« L'intervento delle grandi masse popolari nella guerra partigiana e nella resistenza attiva all'occupante è decisivo per assicurare alle forze democratiche la direzione della guerra di liberazione e la loro decisiva influenza nella vita pubblica italiana: grazie a questa direzione il popolo italiano parteciperà attivamente accanto alle forze alleate alla cacciata dei tedeschi. L'azione militare va quindi condotta con estrema energia ed in tutte le sue forme contro i tedeschi come contro i fascisti. La possibilità di rappresaglie deve naturalmente essere tenuta in conto dai dirigenti locali che dovranno, caso per caso, proporzionare il rischio di un'operazione al suo rendimento. Ma essa non deve paralizzare l'azione contro l'invasore. Nelle città occupate, i tedeschi devono sentirsi in una atmosfera non solo di ostilità, ma di agguato e di attuale pericolo[101]. »
Il colonnello Montezemolo, capo del Fronte militare clandestino

Il 10 dicembre, il colonnello Montezemolo, comandante del Fronte militare clandestino, diramò l'Ordine 333 Op., il cui punto 9 ("organizzazione ed azione delle bande") recitava: «Nelle grandi città la gravità delle conseguenti possibili rappresaglie impedisce di condurre molto attivamente la guerriglia», comandando quindi l'adozione di forme di resistenza basate sulla propaganda e l'ostruzionismo[102]. Quattro giorni dopo, il Comando supremo dell'Esercito Cobelligerante Italiano rivolse alle formazioni partigiane dipendenti una direttiva (scritta da Montezemolo e firmata dal capo di Stato maggiore Giovanni Messe) che, ribadita l'esclusione di «atti aggressivi» nelle grandi città, raccomandava di valutare il rischio di ogni azione armata, da effettuare «contro singoli elementi tedeschi [...] in base a situazione e possibilità ed a un giusto esame del tedesco e delle possibili rappresaglie in relazione all'obbiettivo da conseguire»[103]. Analoghe direttive provenivano dai generali Quirino Armellini (dal 24 gennaio 1944 comandante del Fronte militare) e Roberto Bencivenga (successore del primo nella stessa carica a partire dal 22 marzo), i quali invitarono la popolazione a non compiere attentati in città, ritenendo «inopportuni gli atti di guerriglia urbana perché potevano provocare la rabbiosa reazione dei tedeschi»[104].

Luigi Longo, dirigente del PCI e comandante delle Brigate Garibaldi

L'8 gennaio 1944, dalla direzione del PCI di Milano Luigi Longo, comandante generale delle Brigate Garibaldi, inviò alla direzione romana del partito una lettera in cui, nell'ambito di una generale critica al CLN centrale, accusato di inattività per non aver «agito come governo di fatto, come organo propulsore e regolatore di tutta questa lotta»[105], la dichiarazione congiunta delle direzioni romane dei tre partiti di sinistra veniva contestata in più punti, compreso quello relativo alle azioni armate:

« in questo documento troviamo una espressione, sulla opportunità o meno di fare delle azioni, che noi non approveremmo. Si dice che si dovrà esaminare caso per caso, in base ai possibili colpi che il nemico ci potrebbe arrecare, la convenienza di attaccare. Certo non si deve attaccare senza criterio, le operazioni devono essere studiate e preparate con cura, ma il criterio se il nemico con le sue rappresaglie e la sua reazione ci potrà portare colpi ancora più duri, non può essere preso in considerazione: è l'argomento di cui si servono gli attendisti, ed è sbagliato, non perché, caso per caso, il loro calcolo non possa corrispondere a verità, anzi in astratto, caso per caso, il loro calcolo è sempre giusto, perché è evidente che se il nemico vuole, caso per caso ci può sempre infliggere più perdite di quante noi ne possiamo infliggere a lui. Ma il fatto è che la convenienza o meno della lotta non si può misurare col metro del caso per caso; [...] si deve valutare sempre e solo nel quadro generale politico e militare della lotta contro il nazismo e il fascismo: il morto tedesco non si può contrapporre ai dieci ostaggi fucilati, ma si deve vedere tutte le misure di sicurezza, che il nemico deve prendere, tutta l'atmosfera di diffidenza e di paura che questo crea nelle file nemiche, lo spirito di lotta che queste azioni partigiane esaltano nelle masse nazionali, ecc. ecc[106]. »

Viceversa Bandiera Rossa espresse dei dubbi sull'opportunità di attacchi che avrebbero potuto provocare rappresaglie verso i prigionieri: «Che cosa abbiamo guadagnato con l'azione? Centinaia di compagni, i migliori... si trovano oggi nelle mani dei nostri carnefici. Ma due tedeschi morti valgono forse 100 uomini maturati nella lotta...?»[107].

I gappisti romani e il "ricatto delle rappresaglie"[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1954 durante una celebrazione Giorgio Amendola disse (secondo la sintesi de l'Unità):

« Sorse il problema delle rappresaglie, qualcuno osservò: "pagheranno gli innocenti". Ma questo era un prezzo inevitabile, che i popoli debbono pagare per conquistare la propria libertà. Un duro prezzo; ma rinunciare all'azione per questo significa pagare un prezzo ancora più alto, ancora più caro per tutti. Se il nemico reagisce, come reagì, versando il sangue degli innocenti, questo sangue ricade su di esso[108]. »

Nel 1964 Amendola scrisse:

« La più grossa responsabilità morale che abbiamo dovuto assumere nella guerra partigiana è quella dei sacrifici che si provocano, non soltanto i compagni di lotta che si inviano incontro alla morte – essi hanno scelto liberamente quella strada – ma gli ignari che possono essere colpiti dalle rappresaglie. Se non si supera questo tremendo problema non si può condurre la lotta partigiana. Noi del C.L.N., tutti, anche se nella pratica con maggiore o minore convinzione, sapemmo superare questo problema, e prenderci le necessarie responsabilità. Soltanto dei pavidi o degli ipocriti potevano fare finta di non comprendere le conseguenze che derivavano dalla posizione assunta. Affrontammo il rischio nell'unico modo possibile: non farci arrestare dal ricatto delle rappresaglie e, in ogni caso, rispondere al nemico colpo su colpo e continuare la lotta[29]. »

Concetti analoghi sono espressi nelle memorie di Carla Capponi:

« Noi non avevamo previsto rappresaglie né potevamo piegarci a quel ricatto. Quale reparto di un esercito combattente, consegnarci al nemico sarebbe stato un tradimento: avrebbe significato non solo rinunciare alla lotta, ma anche consegnare con noi notizie preziose di cui eravamo custodi. Nelle "lezioni" che Amendola, Gesmundo, Pellegrini e Lusana avevano tenuto in casa mia, ci era stato detto con chiarezza che alle azioni repressive tedesche si doveva reagire colpo su colpo, che il nemico avrebbe usato tutti i mezzi leciti e illeciti per indurci a desistere, a consegnarci, a rinunciare; che rappresaglie erano state compiute in ogni parte d'Europa e che prima ancora, nella guerra di Spagna, questo drammatico dilemma era stato definitivamente risolto con la scelta di lotta a oltranza. "Chi si consegna al nemico è un traditore" avevano deciso le rappresentanze della Resistenza francese, olandese, italiana. Chi non se la sentiva di stare alle severe, dure regole della lotta clandestina aveva il dovere di rinunciare subito ritirandosi dall'impegno di combattere.

A noi non era stata neppure proposta un'alternativa dai nazisti: "Consegnatevi e le vittime designate saranno salve". Se avessero posta questa condizione, avrebbero certamente messo in crisi la nostra coscienza, ma non avrebbero incrinato le leggi che regolavano il comportamento di fronte al nemico. La nostra sfida era: cercateci, impegnatevi nello scontro con noi ma non infierite con chi non è in grado di difendersi, di combattere. Per noi quell'"ordine" assassino era un crimine contro il quale occorreva mobilitarsi, attaccare con maggiore durezza e determinazione[109]. »

Nelle sue memorie Rosario Bentivegna scrive che i gappisti avevano previsto che attaccare truppe tedesche sarebbe stato diverso dal colpire i fascisti: per gli attacchi a questi ultimi sembrava che i tedeschi «non se la fossero presa troppo» limitandosi a proibire le manifestazioni fasciste, ma «[c]ertamente diversa, pensavamo, sarebbe stata la loro reazione se avessimo cominciato a colpire anche loro»[110]. Nel 1996 Bentivegna affermò: «Noi sapevamo che i nazisti avevano fatto rappresaglie mostruose. Questo problema l'avevamo affrontato da tempo. Ma se non spariamo ai tedeschi, ci dicemmo, che razza di guerra facciamo? Decidemmo di correre il rischio della rappresaglia per salvare l'onore del paese»[111].

Nel 1964 Giorgio Amendola scrisse: «non avevo preveduto le conseguenze dell'azione compiuta: le precedenti azioni dei GAP non erano state seguite da rappresaglie immediate. Invece questa volta s'era scatenato l'inferno»[29]. Successivamente lo stesso Amendola scrisse che, fino al momento dell'attentato, «i tedeschi avevano reagito di fronte ai colpi dei GAP, accelerando il ritmo dei processi romani e della esecuzione delle condanne, con le fucilazioni eseguite a Forte Bravetta»[112].

Alcuni gappisti partecipanti all'attentato hanno affermato di non aver previsto modi ed entità della rappresaglia nazista. Afferma Marisa Musu: «Quello è stato realmente un grosso, un grosso trauma; perché nessuno se l'aspettava. Noi abbiamo fatto anche delle azioni abbastanza consistenti: poi non abbiamo mai saputo quanti morti ci sono stati perché i tedeschi non l'hanno mai detto. Certo, non ne avevamo mai ammazzati trenta tutti insieme; però, in realtà rappresaglie non ce n'erano state. Cioè, si era ucciso, si era fucilato eccetera; però in realtà non si era mai collegato. Quindi per noi direi che è stato indubbiamente, un grande, un grande choc, eravamo sconvolti perché era una cosa... certamente non l'avevamo previsto». Secondo la testimonianza di Mario Fiorentini: «Quando noi abbiamo iniziato sapevamo che potevamo andare incontro alla rappresaglia. Come ci saremmo comportati? (...) Ma noi pensavamo a una trattativa, pensavamo a una fase negoziata». Sulla questione si pronuncia anche l'ordinanza del giudice delle indagini preliminari di Roma, Maurizio Pacioni, del 16 aprile 1998: «Se era certamente prevedibile una dura reazione tedesca all'attentato, non erano, però, prevedibili le forme e i modi in cui questa si sarebbe realizzata, essendo quella della rappresaglia (e in particolare della rappresaglia su persone detenute) solo una delle possibilità preventivabili»[113].

L'accusa della mancata presentazione[modifica | modifica wikitesto]

Dopo l'eccidio delle Fosse Ardeatine, iniziò a diffondersi la diceria secondo cui gli attentatori di via Rasella fossero stati invitati pubblicamente a costituirsi alle autorità occupanti. Sempre secondo questa diceria, i tedeschi avrebbero deciso di porre in atto la rappresaglia unicamente perché tale presunto invito a presentarsi non fu accolto[114]. Giorgio Bocca afferma che tale accusa si trova già insinuata nei primi commenti della stampa fascista, posteriori all'annuncio tedesco di aver eseguito la rappresaglia, e definisce l'accusa stessa «infame e inconsistente» nonché viziata da molteplice malafede, in quanto in realtà «gli autori dell'atto di guerra né sono avvertiti della rappresaglia, né sono invitati a evitarla con il loro sacrificio personale. La strage avviene il giorno seguente: nessun giornale o manifesto o comunicato radio ne ha dato l'avviso»[115].

Il feldmaresciallo tedesco Albert Kesselring, in data 15 novembre 1946, sentito come testimone al processo contro i generali Mackensen e Mältzer, a domanda rispose:

« "Ma voi avreste potuto dire: Se la popolazione romana non consegnerà entro un dato termine il responsabile dell'attentato io fucilerò dieci romani per ogni tedesco ucciso?"
Kesselring: "Ora in tempi tranquilli, dopo tre anni passati, devo dire che l'idea sarebbe stata molto buona".
"Ma non lo faceste".
Kesselring: "No, non lo feci"[116]. »

Durante il proprio processo, nel 1948, Herbert Kappler affermò che «la radio fascista [aveva annunciato] di quarto d'ora in quarto d'ora che se i gappisti di via Rasella non si fossero presentati, i tedeschi avrebbero fucilato 320 civili»; ma tale asserzione è priva di riscontri ed è smentita da altre testimonianze[117].

Osserva Alessandro Portelli che «i tedeschi, che avrebbero tutto l'interesse di dire il contrario, ammettono di non aver fatto avvisi»; ciononostante «centinaia di italiani insistono a dire di averli letti o ascoltati. Ma non si è trovato nessuno che ricordi di averli scritti o trasmessi. Negli archivi tedeschi e italiani, nemmeno i più accaniti ricercatori di destra sono riusciti a scovarne una sola copia; non un esemplare è stato presentato ai processi». Sempre secondo Portelli, la falsa notizia secondo cui i partigiani, presentandosi alle autorità nazifasciste subito dopo l'attentato, avrebbero potuto evitare l'eccidio delle Fosse Ardeatine, sarebbe stata inventata a scopi propagandistici dal federale Giuseppe Pizzirani, durante una riunione del Partito Fascista Repubblicano in data 30 marzo 1944[118].

La "mancata presentazione" degli attentatori di via Rasella è stata talvolta messa a confronto con il comportamento di Salvo D'Acquisto, che pur innocente si era accusato responsabile della morte di alcuni soldati tedeschi[119][120]. Benché in alcune di queste narrazioni si affermi che Salvo D'Acquisto "si presentò" o "si consegnò" spontaneamente ai tedeschi, Portelli rileva che in realtà ciò non è esatto: D'Acquisto era già prigioniero dei tedeschi, e stava per essere fucilato assieme ad altri ostaggi, quando decise di autoaccusarsi per scagionare questi ultimi[121].

Lo storico Paolo Simoncelli ha riportato in un suo articolo una testimonianza tratta dal memoriale inedito del medico Vittorio Claudi (morto nel 2006), che avrebbe visto un manifesto in Piazza Verdi (Roma) nel quale vi sarebbe stata una richiesta di consegna da parte del comando tedesco prima di effettuare il massacro[122][123].

Luca Baiada sostiene di aver individuato l'origine di quella che egli definisce una «leggenda (...) demistificata dai migliori studi e dichiarata falsa dalle sentenze»: un volantino senza data, firmato "I fascisti repubblicani dell'Urbe", in cui appunto si afferma che «i banditi comunisti dei gap avrebbero potuto evitare questa rappresaglia, pur prevista dalle leggi di guerra, se si fossero presentati alle autorità germaniche che avevano proclamato, via radio e con manifesti su tutti i muri di Roma, che la fucilazione degli ostaggi non sarebbe avvenuta se i colpevoli si fossero presentati per la giusta punizione». In base a una serie di indizi testuali, Baiada ritiene di poter collocare questo volantino in una data compresa fra il 30 marzo e il 18 aprile 1944. Secondo Baiada, è possibile che questo volantino sia stato affisso ai muri e che abbia potuto ingenerare, in molti di coloro che lo videro, il falso ricordo di aver visto il «documento mai esistito (l'invito a presentarsi)» evocato nel volantino stesso[124].

Storiografia[modifica | modifica wikitesto]

Aurelio Lepre, nel suo saggio pubblicato nel 1996, ha dedicato alcune complesse riflessioni a quello che egli ha definito il «problema della prevedibilità della rappresaglia»[125]. Secondo Lepre, la «facilità dell'esecuzione dell'attentato in via Tomacelli e la mancanza di reazioni diedero [ai gappisti] la falsa impressione di una guerriglia che poteva portare i suoi colpi senza coinvolgere la popolazione civile nelle rappresaglie»; si trattava però di un «calcolo errato», giacché i gappisti praticavano un terrorismo «fondato sull'improvvisazione, sull'intuito, che guardava al gesto da compiere più che alle sue possibili conseguenze»[126]. Nella ricostruzione di Lepre, dopo il successo dell'attentato di via Tomacelli, i Gap ebbero l'idea di un nuovo attentato programmato per il 23 marzo, che «avrebbe dovuto essere diretto, in un primo momento, contro i fascisti»[127]. Fino a tutto il 22 marzo «i gappisti pensavano ancora di attaccare il corteo fascista, se si fosse formato dopo la manifestazione all'Adriano, mentre i socialisti avrebbero attaccato altrove. L'attentato a via Rasella era preparato solo in alternativa»[128]. Solo a mezzogiorno del 23 i Gap seppero che il corteo fascista non ci sarebbe stato e si decisero ad attaccare i tedeschi in via Rasella; ma – commenta Lepre - «non era la stessa cosa, e l'esempio di via Tomacelli non valeva più», perché questa volta si attaccavano direttamente i soldati tedeschi e non più i fascisti italiani. «Se i gappisti avessero esaminato le possibili conseguenze dell'attentato, avrebbero dovuto prevedere una dura rappresaglia»[129]. Dopo aver parlato della riunione del Cln del 26 marzo, Lepre riconosce che i comunisti (e Amendola in particolare), di fronte al rifiuto da parte del Cln di assumersi la responsabilità collettiva dell'attentato, se ne assunsero loro la responsabilità col comunicato del 30 marzo, e però commenta: «I gappisti, che prima di via Rasella non immaginavano che vi sarebbero potute essere rappresaglie così spietate e che all'uccisione dei soldati tedeschi si sarebbe risposto con una strage, continuarono anche in seguito a progettare attentati di eguale portata e che avrebbero potuto avere conseguenze analoghe»[130]. Lepre menziona alcuni altri progetti di attentati da parte dei gappisti successivi a via Rasella (progetti che Lepre ricostruisce in base alle successive testimonianze – in parte divergenti - di Bentivegna e di Franco Calamandrei), e in particolare di un attacco fissato per il 28 marzo che saltò all'ultimo momento allorché «una staffetta portò l'ordine di rientrare alla base: le forze moderate presenti nel Cln avevano avuto la meglio sulla sinistra, composta da Giorgio Amendola, Sandro Pertini e Riccardo Bauer»[131]. Secondo Lepre, la posizione delle componenti moderate del Cln rifletteva in realtà l'atteggiamento della maggior parte della popolazione di Roma, mentre il «tentativo degli attentatori di spingere a ogni costo i romani alla lotta era una forzatura degli avvenimenti, perché a Roma la resistenza era ancora molto debole e tale rimase»[132]. Lepre conclude che i «gappisti non raggiunsero gli obiettivi che si erano prefissi: l'attentato [di via Rasella] servì soltanto a mostrare la ferocia del nemico. Un risultato pagato a prezzo troppo elevato di morti, quelli italiani delle Fosse Ardeatine, ma anche quelli tedeschi»[133].

Nella valutazione di Gabriele Ranzato, l'attentato «ha conseguito per le finalità della Resistenza un grande risultato di portata simbolica e pratica: ha potuto rappresentare, con tutta la risonanza internazionale che il fatto di essere avvenuto nella capitale implicava, la decisa volontà degli italiani di lottare contro il fascismo e i tedeschi; ha mostrato la vulnerabilità di questi ultimi, incoraggiando a imprese più audaci coloro che già si battevano contro di essi; con la sua esaltante esemplarità ha spinto molti uomini in tutta Italia a combattere gli occupanti e i loro collaboratori. La responsabilità della rappresaglia, imprevedibile nella criminalità della sua portata [...], appartiene solo a chi l'ha compiuta; soggiacere al ricatto delle rappresaglie implicava la fine di ogni resistenza armata. La legittimità dell'atto di guerra compiuto non fu tanto di natura giuridica quanto di natura morale, come lo è quella di qualsiasi azione violenta diretta ad abbattere una tirannide che abbia il monopolio della legittimità giuridica. Il fatto che la decisione di compiere l'attentato fu del solo Pci non ne limita la legittimità poiché quell'atto non contraddiceva alcuna disposizione, né del Cln né del governo Badoglio, ed era anzi assolutamente coerente con le esortazioni dell'uno e dell'altro a colpire il nemico comunque e dovunque si presentasse l'occasione»[134]. Tuttavia, sempre secondo Ranzato, nell'ambito locale romano la rappresaglia delle Ardeatine riuscì nell'intento di intimidire la popolazione, privò le organizzazioni della Resistenza di numerosi esponenti anche importanti, e complessivamente segnò una battuta d'arresto per la Resistenza romana, compresa quella comunista, che dopo via Rasella non riuscì più a portare a segno operazioni di tale portata. Lo sciopero generale indetto dal CLN per il 3 maggio 1944 fu un sostanziale fallimento, e, diversamente da molte altre città italiane, la liberazione da parte degli Alleati non fu preceduta da alcuna insurrezione[135].

Circa le affermazioni di Ranzato sul «ricatto delle rappresaglie» e la legittimità morale ancor più che giuridica dell'attentato, Paolo Pezzino scrive: «Si tratta, a mio avviso, di giudizi prodotti da una contaminazione fra il livello della ricerca storiografica e il livello etico-politico, che non condivido. Sul piano analitico non si può considerare la resistenza armata una guerra come tutte le altre: la continua rivendicazione da parte partigiana del proprio carattere combattente può nascondere la stessa pretesa di irresponsabilità dei soldati regolari nelle azioni di guerra, con la medesima semplificazione di chi, riducendo gli individui ad automi irresponsabili delle proprie azioni, sostiene che gli ufficiali e i soldati tedeschi che si macchiavano di azioni inumane non avevano alternativa al loro comportamento a causa degli ordini draconiani che ricevevano»[136].

Lo storico statunitense Richard Raiber afferma che, «come molte azioni partigiane, via Rasella non ottenne alcun risultato tangibile», poiché il reparto colpito non era delle SS, provocò non un'insurrezione ma un'atroce rappresaglia e spinse i tedeschi, timorosi che l'azione fosse collegata a un'offensiva alleata dalla testa di ponte di Anzio e Nettuno, a inasprire ulteriormente le misure repressive contro la già sofferente popolazione romana[137]. Il libro di Raiber è stato criticato per il suo atteggiamento alquanto giustificatorio nei confronti dei crimini di guerra della Wehrmacht, e per avere a volte attribuito la responsabilità delle rappresaglie naziste, più che ai nazisti stessi, alle popolazioni che ne furono vittima[vedi talk][138].

La Commissione storica italo-tedesca definisce quella di via Rasella la più nota e «la più gravida di conseguenze» delle azioni dei GAP, consistenti in «attentati politici» che «avevano anche lo scopo di scuotere la maggioranza della popolazione civile dallo stato di attesa passiva in cui versava», ossia «di dimostrare la forza della Resistenza e di mobilitare strati sempre più ampi della popolazione contro il regime d'occupazione»; obiettivo generalmente non conseguito:

« Le reazioni in cui i gruppi di resistenza avevano sperato tuttavia non arrivarono. Al contrario, da lettere e petizioni emerge addirittura che a volte il risentimento della popolazione si dirigeva piuttosto contro coloro che con i loro attentati provocavano le rappresaglie tedesche, anziché contro gli autori delle rappresaglie stesse. Anche a Roma, in alcuni settori della popolazione la deprecazione nei confronti dell'attentato sopravanzò l'avversione prodotta dalle esecuzioni. »

Sebbene sia storicamente accertato che questo genere di attentati abbia suscitato critiche in parte della popolazione italiana, la gran parte di essa (fatta eccezione per una minoranza di fascisti che collaboravano attivamente all'occupazione) condivise comunque un atteggiamento di avversione nei confronti dei tedeschi occupanti, considerando questi ultimi responsabili del persistere della guerra[5].

Santo Peli, dopo aver affermato che la vicenda di via Rasella e delle fosse Ardeatine è ormai ricostruita in modo esauriente dalla storiografia, osserva come tale vicenda sia tuttavia oggetto di polemiche ricorrenti, basate su quelle che definisce due «pseudo-verità» entrate nel senso comune nonostante siano state «smentite in sede storica come in sede giudiziaria[139]»: il presupposto secondo cui «qualora i gappisti (...) si fossero presentati agli occupanti, avrebbero evitato la strage delle Fosse Ardeatine[140]»; e l'altra asserzione, secondo Peli altrettanto falsa, secondo cui «il rapporto di 10 a 1 tra prigionieri da trucidare e tedeschi uccisi (...) fosse del tutto prevedibile, in quanto derivante da una presunta "legge di guerra", o da una prassi consolidata al punto da essere da tutti conosciuta. In realtà, in Italia come nel resto d'Europa, il rapporto 10:1 viene utilizzato in modo sporadico, a seconda di un insieme di mutevoli circostanze, e gli esempi di mancate rappresaglie, o di rappresaglie dove la proporzione è di 50, o di 100 a 1, sono abbondanti[141]». Continua Peli: «Fino al 23 marzo 1944, una risposta di quell'entità non è prevedibile: si tratta di un dato di fatto ampiamente documentato e non è necessario insistervi ulteriormente. Ciò che colpisce è l'inossidabile pervasività dell'opinione contraria, che non può essere liquidata come semplice frutto d'ignoranza. Come nel caso dell'invenzione dei manifesti invitanti i "colpevoli" a presentarsi, anche la pretesa esistenza di una legge del 10 a 1 ha una sua precisa funzionalità in un discorso antiresistenziale, perché permette di contrapporre a un "ordine" implacabile, duro, però garantito da un esercito regolare, la "irresponsabilità" di chi, conoscendo perfettamente quest'"ordine", lo sfida, costringendo le "autorità", che pure avevano preavvertito delle conseguenze, a compiere una rappresaglia. Da una parte "l'ordine costituito", dall'altra dei "fuorilegge". "Banditen", appunto, come li chiamano i tedeschi[142]».

Secondo Giovanni De Luna, «Via Rasella non va giudicata sul piano morale, ma come testimonianza della necessità che anche a Roma ci fosse una lotta armata in grado di spezzare la ragnatela di attendismo e complicità che era stata tessuta»; trovando l'azione la sua ragion d'essere nel fatto che «si trattava di elaborare la frustrazione seguita al fatto che c'era stato lo sbarco degli Alleati ad Anzio, nel gennaio del '44, senza che Roma desse un segnale di vita, come tutti si aspettavano. È un atto che si inserisce in una logica militare di guerra in città, e in quel contesto è totalmente plausibile»[143].

La tesi del complotto contro gruppi rivali del PCI[modifica | modifica wikitesto]

Il PCI nutriva sospetti e diffidenze verso il Fronte militare clandestino di Montezemolo, che il 13 dicembre 1943 Giorgio Amendola, nell'illustrare alla direzione milanese del partito gli ostacoli verso l'insurrezione finale, descriveva come «una organizzazione reazionaria che cerca di inquadrare i carabinieri e gli ex ufficiali e che si propone di lottare contro i tedeschi ma di assicurare l'"ordine" e di impedire l'intervento popolare nella lotta»[144]. È nota inoltre l'ostilità del partito verso i gruppi trotskisti, che nel gennaio 1944 l'Unità denunciò come quinta colonna del nazismo e del fascismo, definendoli tra l'altro «rettili abietti da schiacciare senza pietà nell'interesse non solamente del Partito e della classe operaia ma dell'umanità intera»[145].

Sulla base di queste accertate tensioni politiche, una variante della tesi della rappresaglia cercata - sostenuta da Pierangelo Maurizio[146], Giorgio Pisanò (ex combattente della RSI e parlamentare del MSI), Roberto Guzzo (partigiano di Bandiera Rossa) e Massimo Caprara (segretario personale di Palmiro Togliatti e deputato del PCI poi diventato anticomunista)[147] - vuole che il PCI, ben conoscendo le modalità con cui i tedeschi selezionavano i fucilandi per le rappresaglie, attraverso una ben orchestrata campagna di delazioni avrebbe fatto arrestare progressivamente la maggior parte degli esponenti delle reti clandestine non comuniste o comuniste dissidenti, tra cui molti appartenenti al movimento trotskista Bandiera Rossa, per poi effettuare l'attacco affinché costoro fossero fucilati per rappresaglia[148]. Il principale storico del movimento Bandiera Rossa, Silverio Corvisieri, reputa tale tesi del tutto priva di fondamento[149].

Anche l'atroce fine toccata al direttore di Regina Coeli, Donato Carretta, linciato brutalmente durante il processo a Pietro Caruso, sarebbe servita - per i sostenitori di questa tesi - a "tappare la bocca" all'uomo che conosceva il segreto della compilazione delle liste dei fucilandi[147].

Nessuna delle argomentazioni proposte dai sostenitori della tesi del complotto risulta, tuttavia, suffragata da prove; in particolare:

  • Non risulta che il PCI clandestino conoscesse le modalità con cui i nazisti selezionavano i fucilandi per le rappresaglie che, peraltro, nel caso di specie, sono stati scelti[150]: 154 persone a disposizione dell'Aussenkommando, sotto inchiesta di polizia; 23 in attesa di giudizio del Tribunale militare tedesco; 16 persone già condannate dallo stesso tribunale a pene varianti da 1 a 15 anni; 75 appartenenti alla comunità ebraica romana; 40 persone a disposizione della Questura romana fermate per motivi politici; 10 fermate per motivi di pubblica sicurezza, 10 arrestate nei pressi di via Rasella; una persona già assolta dal Tribunale militare tedesco, oltre a tre, tuttora non identificate.
  • Non vi sono documenti attestanti che sia stata orchestrata una campagna di delazioni, da parte del PCI, perché fossero progressivamente arrestati la maggior parte degli esponenti delle reti clandestine non comuniste o dissidenti.
  • Non vi sono documenti che attestino che la folla inferocita che procurò la morte di Donato Carretta, a latere del "processo Caruso" sia stata abilmente pilotata e per quali fini.
  • Non è esatto che i partigiani aderenti al PCI non siano stati trucidati alle Fosse Ardeatine: nell'elenco dei caduti riportato in "Roma Ribelle", di Marisa Musu ed Ennio Polito ne risultano 28, compresi i "gappisti" Gioacchino Gesmundo, Valerio Fiorentini e Umberto Scattoni[151]. Anche Gesmundo, come Montezemolo, fu orribilmente torturato durante la prigionia. Il comandante dei G.A.P. Antonello Trombadori, recluso a Regina Coeli, si salvò dall'eccidio grazie all'azione del medico socialista Alfredo Monaco[152].

Il 27 giugno 1997, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Maurizio Pacioni, ha ritenuto del tutto insostenibile l'accusa di Roberto Guzzo nei confronti di Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, secondo cui l'azione di Via Rasella non sarebbe stata diretta contro i tedeschi ma contro altri gruppi della Resistenza, e ha ritenuto che la testimonianza accusatoria di Guzzo contenesse solo «meri sospetti ed illazioni»[153]. Il giornalista Massimo Caprara, già sostenitore della tesi del complotto contro gruppi rivali del P.C.I., ha in seguito ammesso in sede giudiziaria di «non avere alcun elemento per affermare che l'attentato di via Rasella fosse strumentalizzato in direzione d'una prevedibile rappresaglia nei confronti di militanti politici di diverso colore»[154].

Riepilogo delle sentenze[modifica | modifica wikitesto]

Via Rasella, dettaglio (aprile 2007)
  • All'interno della sentenza di condanna del 20 luglio 1948, emessa contro Herbert Kappler e altri coimputati per la strage delle Fosse Ardeatine, il Tribunale Territoriale Militare di Roma negava la qualifica di legittima azione di guerra dell'attentato di Via Rasella, in quanto non commesso da "legittimi belligeranti"[155]. I partigiani autori dell'attentato non avrebbero infatti rispettato tutti i requisiti previsti dalla Convenzione dell'Aja del 18 ottobre 1907 per il riconoscimento della qualifica di legittimi belligeranti anche ai civili organizzati in corpi di volontari, ossia essere comandati da una persona responsabile per i propri subordinati, indossare un segno di riconoscimento fisso riconoscibile a distanza, portare le armi apertamente e condurre le operazioni secondo le leggi ed i costumi di guerra[156].
  • La mancanza di tali requisiti veniva confermata il 25 ottobre 1952 anche dal Tribunale Supremo Militare, all'interno della sentenza di rigetto del ricorso presentato da Kappler contro la condanna[157].
  • Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con sentenza n.36 del 19 dicembre 1953, ribadendo la sentenza del 1952 del Tribunale Supremo Militare di Roma, dichiararono inammissibile il ricorso di Kappler avverso alla sentenza, perché lo stesso Kappler fece arrivare comunicazione di rinuncia al ricorso[158]
  • Nel 1949, alcuni familiari dei fucilati alle Fosse Ardeatine intentarono una causa civile per danneggiamenti contro Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei, Carlo Salinari, Carla Capponi, e contro Sandro Pertini, Giorgio Amendola e Riccardo Bauer[159]. Il tribunale si rifà al punto di vista dello stato italiano: L’atto di guerra, da chiunque attuato nell’interesse della propria Nazione, non è di per sé, e per il singolo, da considerarsi illecito, salvo che tale non sia espressamente qualificato da una norma di legge interna. La mancanza di comandanti e di uniformi militari manifesti è resa inevitabile dalle condizioni di clandestinità giustificate dal tipo di combattimento; dunque via Rasella è un atto di guerra a danno di un nemico che occupa in stato guerra il territorio, ed è da escludersi che la morte o il ferimento dei cittadini che si trovavano casualmente in quel luogo siano stati voluti, e che sia stato voluto il successivo eccidio delle Cave Ardeatine. I gappisti e i fucilati alle Fosse Ardeatine sono non rei da una parte, ma combattenti; non semplici vittime di una azione dannosa dall’altra, ma martiri caduti per la patria[160].
  • Il Tribunale Supremo Militare di Roma con sentenza in data 25 ottobre 1960 respinse il ricorso presentato da Kappler affinché le 15 uccisioni in più delle Fosse Ardeatine fossero considerate reato almeno in parte "politico", al fine di poter rientrare nei termini dell'amnistia[161].
  • Nel 1997, il giudice romano Maurizio Pacioni si appellò di nuovo alla definizione di atto illegittimo di guerra e aprì un altro procedimento contro Balsamo, Bentivegna e Capponi, per ritenerli responsabili del reato di strage per la morte di Piero Zuccheretti e Antonio Chiaretti. Con l'ordinanza del 16 aprile 1998, il giudice per le indagini preliminari di Roma disponeva l'archiviazione del procedimento penale a carico di Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, iniziato a seguito di una denuncia presentata da alcuni parenti delle vittime civili dell'attacco. Il giudice escludeva la qualificazione dell'atto come legittima azione di guerra, ravvisando tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage, altresì rilevando tuttavia l'estinzione del reato a seguito dell'amnistia prevista dal decreto 5 aprile 1944 per tutti i reati commessi "per motivi di guerra".[162]
  • Decidendo con sentenza n.1560/99[163] sul ricorso presentato da Bentivegna, Balsamo e Capponi, la prima sezione penale della Corte di Cassazione annullava la precedente ordinanza, affermando per la prima volta in sede penale la natura di legittimo atto di guerra dell'attacco di Via Rasella. La legittimità dell'azione, per la Suprema Corte, deve essere «valutata nel suo complesso, senza che sia possibile scinderne le conseguenze a carico dei militari tedeschi che ne costituivano l'obiettivo da quelle coinvolgenti i civili che ne rimasero vittima, in rapporto alla sua natura di "azione di guerra"». Tra i vari elementi a supporto della legittimità dell'azione, la Corte ha citato la sentenza emessa il 25 ottobre 1952 dal Tribunale Supremo Militare nell'ambito del processo Kappler, in una versione viziata da un refuso: dalla frase «commesso da persone che non hanno la qualità di legittimi belligeranti» era omessa la parola «non», cosicché il suo significato risultava stravolto. A causa di ciò, la Corte ha erroneamente assunto che la sentenza del 1952 avesse «rovesciato» la qualificazione dell'attentato come atto illegittimo operata dalla prima sentenza Kappler del 1948. Secondo il filosofo del diritto Vincenzo Zeno-Zencovich la vicenda, emblematica della fragilità delle ricostruzioni giudiziarie in materia storica, dimostra che «nessuna sentenza di assoluzione potrà sopire il dibattito sulla opportunità o sulla temerarietà dell'attentato del 23 marzo 1944»[164].
  • Il 7 agosto 2007 la Cassazione ha confermato la condanna al risarcimento inflitta dalla Corte d'appello di Milano al quotidiano Il Giornale per diffamazione ai danni di Rosario Bentivegna[165][166]. La Corte, partendo dalla qualificazione dell'attacco come legittimo atto di guerra rivolto a colpire esclusivamente i militari occupanti, ha ritenuto che alcune affermazioni contenute in articoli pubblicati dal quotidiano milanese nel 1996, per i Supremi Giudici tendenti a parificare le responsabilità degli esecutori dell'attacco di Via Rasella e dei comandi nazisti nella causazione della strage delle Fosse Ardeatine, erano gravemente lesive dell'onorabilità personale e politica del Bentivegna. Le affermazioni del Giornale furono:
    • che il Battaglione "Bozen" fosse costituito interamente da cittadini italiani, mentre per la Cassazione facendo parte dell'esercito tedesco, i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica.
    • che i componenti del "Bozen" fossero «vecchi militari disarmati», mentre per la Cassazione essi erano «soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e "machine­pistolen"».
    • che le vittime civili fossero sette, mentre per la Cassazione nessuno mette più in discussione che furono due.
    • che dopo l'attacco erano stati affissi manifesti in cui si intimava ai responsabili dell'attacco di consegnarsi per evitare una rappresaglia ma, per la Corte l'asserzione trova puntuale smentita nel fatto che la rappresaglia delle Fosse Ardeatine era iniziata circa 21 ore dopo l'attacco, e soprattutto nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si tenesse nascosta la notizia di Via Rasella, che venne effettivamente data a rappresaglia già avvenuta[167].
  • Il 22 luglio 2009 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di Elena Bentivegna (figlia di Carla Capponi e Rosario Bentivegna) contro il quotidiano Il Tempo che aveva pubblicato un articolo dove gli autori dell'attacco di via Rasella venivano definiti "massacratori di civili". La sentenza ha stabilito che l'epiteto utilizzato è lesivo della dignità dei partigiani e per questo diffamatorio, in quanto quello di via Rasella fu "legittimo atto di guerra contro il nemico occupante".[168]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ La via, ubicata nel pieno centro storico di Roma, congiunge via delle Quattro Fontane (adiacente a Palazzo Barberini) con via del Traforo. Prende il nome «dalla proprietà che ivi esisteva della famiglia Roselli». Cfr. Dipartimento Cultura - Servizio Commissione Consultiva di Toponomastica, Via Rasella, Comune di Roma. URL consultato il 14 luglio 2013.
  2. ^ Bentivegna 2004, p. 199.
  3. ^ Mila Contini, Intervista all'attentatore di via Rasella, in Oggi, 24 dicembre 1946, p. 15. Cfr. Staron 2007, pp. 38-39.
  4. ^ La deposizione dell'on. Amendola, in La Stampa, 19 giugno 1948.
  5. ^ a b Rapporto della Commissione storica italo-tedesca insediata dai Ministri degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e della Repubblica Federale di Germania il 28 marzo 2009, luglio 2012, pp. 29-30 e 110-2.
  6. ^ Benzoni 1999, pp. 9 e 113.
  7. ^ La storica Anna Rossi-Doria lo definisce «il caso italiano di memoria divisa più rilevante sia per la durata nel tempo che per la molteplicità dei significati». Cfr. Anna Rossi-Doria, Una storia di memorie divise e di impossibili lutti, in Passato e presente, 2000, 49, pp. 133-140: 136.
  8. ^ Per una panoramica delle sentenze, si veda il riepilogo dedicato.
  9. ^ a b Ranzato 2000, p. 418.
  10. ^ Ranzato 2000, p. 416.
  11. ^ Ranzato 2000, pp. 416-7.
  12. ^ Portelli 2012, pp. 180-1. Portelli cita in proposito la testimonianza della partigiana Maria Teresa Regard, la quale menziona ordini ricevuti via radio; un ordine pervenuto a Montezemolo dai comandi alleati, riportato in E. Piscitelli, Storia della resistenza romana, Bari 1965, p. 259; un messaggio di Montezemolo a Giorgio Amendola riferito da quest'ultimo in Lettere a Milano, Roma 1973, p. 269; una testimonianza di Peter Tompkins secondo il quale "l'indicazione era di preparare l'insurrezione".
  13. ^ Longo 1973, p. 336.
  14. ^ a b Ranzato 2000, p. 419.
  15. ^ In realtà i fucilati erano stati cinque, ma anche il quotidiano fiorentino La Nazione aveva annunciato l'uccisione di dieci prigionieri con un articolo dal titolo Dieci traditori giustiziati all'alba di stamane. Cfr. Alberto Marcolin, Firenze, 1943-'45, Medicea, Firenze 1994, pp. 120 e 127.
  16. ^ La prigionia di Roma. Diario dei 268 giorni dell'occupazione tedesca, prima edizione S.E.L.I., Roma 1945.
  17. ^ Staron 2007, p. 42.
  18. ^ Cronologia della Resistenza romana, gennaio 1944.
  19. ^ Klinkhammer 1997, p. 10.
  20. ^ Portelli 2012, p. 184.
  21. ^ Portelli 2012, pp. 184-5.
  22. ^ Portelli 2012, p. 185.
  23. ^ Secondo Augusto Pompeo l'azione partigiana ebbe luogo il 5 marzo; Pompeo 2006, p. 69.
  24. ^ I nomi in Amendola 1973, p. 289.
  25. ^ Secondo Bentivegna questa sarebbe stata l'unica rappresaglia tedesca prima di via Rasella: «Rappresaglie vere e proprie fino a via Rasella non ne fecero, tranne una volta che a piazza dei Mirti un compagno dei Gap di Centocelle aveva ammazzato un tedesco e Kappler fece fucilare dieci compagni fra cui Giorgio Labò, dicendo nel comunicato che era una rappresaglia per il soldato ucciso a piazza dei Mirti». Cfr. Cesare De Simone, Roma città prigioniera, Mursia, Milano 1994, p. 238.
  26. ^ Benzoni 1999, p. 78. Secondo gli autori, «Il comunicato relativo a questa rappresaglia era ampiamente noto a tutti».
  27. ^ Amendola 1973, p. 289-290.
  28. ^ Capponi 2009, pp. 209-210.
  29. ^ a b c d e f Lettera di Giorgio Amendola a Leone Cattani sulle vicende di via Rasella, 12 ottobre 1964, pubblicata per la prima volta in De Felice 1997, Appendice, pp. 562-566, consultabile sul sito dell'Associazione Italiana Autori Scrittori Artisti "L'Archivio".
  30. ^ Amendola 1973, p. 290.
  31. ^ Capponi 2009, pp. 226-227.
  32. ^ Portelli 2012, p. 192.
  33. ^ Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, 2004, p. 44 e 250.
  34. ^ Intervista a Giorgio Amendola, in Gianni Bisiach, Pertini racconta. Gli anni 1915-1945, Milano, Mondadori, 1983, pp. 130-1.
  35. ^ a b Katz 2009, pp. 11 e 245.
  36. ^ Katz 2009, p. 241.
  37. ^ Baratter 2005, p. 196.
  38. ^ Uno dei militari ricorda che i comandanti "pretendevano che noi sfilassimo per le strade sempre cantando a squarciagola, come tanti galli, petto in fuori, a urlare in continuazione un cadenzato chicchirichi" - si veda C. Fracassi, La battaglia di Roma, p. 380.
  39. ^ Christoph v. Hartungen, Die Südtiroler Polizeiregimenter 1943-1945, in "Der Schlern", 55, 1981, p. 494-516.
  40. ^ Katz 2009, p. 245.
  41. ^ Carlo Salinari, L'attacco ai tedeschi nel cuore della città, in l'Unità, 23 marzo 1974.
  42. ^ Fracassi 2013, p. 380.
  43. ^ Lepre 1996, pp. 22-26. «I romani non si erano mai sentiti tanto sicuri come si sentirono il 22 marzo» (p. 26).
  44. ^ Marisa Musu, Ennio Polito, Roma ribelle, Teti editore, Milano, 1999, p. 148 n.
  45. ^ Per una galleria di immagini, si veda: Quegli squarci nei muri di via Rasella, ansa.it,. 29 aprile 2015.
  46. ^ Intervista a Rosario Bentivegna a cura di Giancarlo Bosetti, «Così ho vissuto dopo via Rasella», in l'Unità, 24 gennaio 1993.
  47. ^ C. Fracassi, La battaglia di Roma, p. 383.
  48. ^ Portelli 2012, pp. 194-5.
  49. ^ Testimonianza del sopravvissuto Konrad Sigmund, riportata in: Portelli 2012, p. 196.
  50. ^ (EN) The Scots College Rome, 1940-1946, su The Pontifical Scots College. URL consultato il 5 settembre 2015.
  51. ^ Durante alcuni lavori di restauro, nel 2004 sono stati rimossi molti dei buchi lasciati sulle facciate dei palazzi dalle schegge dell'ordigno e dalle mitragliate. Cfr. Vincenzo Vasile, Via Rasella, calce bianca sulla Resistenza, in l'Unità, 23 giugno 2004.
  52. ^ Adattamento ed elaborazione dall'intervista originale a Carla Capponi, su larchivio.com. URL consultato il 19 giugno 2014.
  53. ^ Portelli 2012, pp. 195-6.
  54. ^ Portelli 2012, p. 195.
  55. ^ Tratta da Baratter 2005, pp. 317-318, e da Il Polizeiregiment "Bozen", su historiamilitaria.it. URL consultato il 15 giugno 2014.
  56. ^ Baratter 2005, p. 192.
  57. ^ a b Sentenza n. 631, del Tribunale Militare Territoriale di Roma, in data 20.07.1948, su difesa.it. URL consultato il 19 giugno 2014.
  58. ^ Katz 2009, p. 283.
  59. ^ Staron 2007, p. 391, nota 24 relativa a p. 33.
  60. ^ Siegfried Westphal, Erinnerungen, v. Hase & Koehler Verlag, Mainz 1975, p. 255.
  61. ^ Su Antonio Chiaretti si veda l'intervista a suo nipote Giuseppe Chiaretti, arcivescovo emerito di Perugia: L'arcivescovo emerito di Perugia, Chiaretti ha due parenti martiri della libertà, su umbrialeft.it. URL consultato il 29 giugno 2015.
  62. ^ Paolo Simoncelli, Ma a via Rasella la resistenza divenne «rossa», in Avvenire, 10 agosto 2007.
  63. ^ a b Portelli 2012, p. 196.
  64. ^ Portelli 2012, p. 198.
  65. ^ Portelli 2012, p. 417 n. L'autore aggiunge: «Questa versione viene abitualmente rilanciata nelle polemiche della stampa di destra ancora oggi».
  66. ^ Pierangelo Maurizio, Via Rasella, cinquant'anni di menzogne, p. 27. Secondo le testimonianze ivi citate, gli arrestati nei locali della PAI furono trattati bene, mentre quelli concentrati al Viminale furono ammassati in una stanza in condizioni igieniche disumane e malmenati crudelmente
  67. ^ Portelli 2012, p. 201.
  68. ^ Vito Antonio Leuzzi, Fosse Ardeatine, pugliese racconta: «Così mi salvai», in Gazzetta del Mezzogiorno, 23 aprile 2010..
  69. ^ La Stampa, 26 marzo 1944, su fonte Agenzia Stefani - si veda immagine.
  70. ^ Portelli 2012, p. 209.
  71. ^ Portelli 2012, pp. 209-10.
  72. ^ Portelli 2012, pp. 211 e 421.
  73. ^ Portelli 2012, p. 9 (il testo del comunicato) e p. 421 (per l'orario di uscita dei giornali).
  74. ^ Citato in: Bocca 1996, pp. 293-4.
  75. ^ Lepre 1996, pp. 46-7.
  76. ^ Portelli 2012, p. 11.
  77. ^ Luigi Cortesi, Bonomi, Ivanoe, Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 12, 1971.
  78. ^ Roma «città aperta». Un comunicato chiarificatore del Comando Superiore germanico, in La Stampa, 28 marzo 1944.
  79. ^ Amendola 1973, pp. 295-7.
  80. ^ Katz 2009, p. 312.
  81. ^ Enzo Forcella, Leggi di guerra, in La Repubblica, 25 marzo 1994. Dello stesso autore, Togliatti non smentì via Rasella: c'era Amendola, in Corriere della Sera, 26 ottobre 1996. "Si discute di un falso mistero", in La Repubblica, 29 giugno 1997. La storia di via Rasella. Partigiani e penne rosse, in Corriere della Sera, 10 marzo 1998.
  82. ^ Baratter 2005, p. 203.
  83. ^ Klinkhammer 1997, p. 9.
  84. ^ Forcella 1999, p. 152.
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  86. ^ Gentile 2015, p. 132.
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  88. ^ Bentivegna 2004, pp. 206-9.
  89. ^ Andrae 1997, p. 121.
  90. ^ Gentile 2015, pp. 70-71.
  91. ^ Pavone 1991, p. 477.
  92. ^ Pavone 1991, p. 488.
  93. ^ Voce Rappresaglia in Dizionario di Storia Treccani on line.
  94. ^ La lotta del PCI contro l'"attendismo" è trattata estesamente in De Felice 1997, pp. 183-204. L'autore scrive che tra le tendenze diffuse nel movimento partigiano più duramente contrastate dai comunisti vi era quella «a evitare il terrorismo e la violenza spicciola, a commisurare l'azione armata al costo da essa richiesto e in particolare all'esigenza di non esporre oltre un certo limite la popolazione alle rappresaglie nemiche» (pp. 197-8).
  95. ^ Pavone 1991, p. 479. Pavone usa l'espressione "strumento di garanzia" citandola da uno scritto di Max Weber.
  96. ^ Documento citato in Pavone 1991, p. 480.
  97. ^ Peli 2014, p. 30.
  98. ^ Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953, p. 128.
  99. ^ Portelli 2012, pp. 157-8.
  100. ^ Forcella 1999, pp. 171-2. L'autore sottolinea come Colorni fosse una figura «non certo sospettabile di "attendismo"».
  101. ^ Longo 1973, p. 242.
  102. ^ Gabrio Lombardi, Montezemolo e il fronte militare clandestino di Roma (ottobre 1943-gennaio 1944), Le Edizioni del Lavoro, Roma 1972, p. 73.
  103. ^ Giacomo Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991, Einaudi, Torino 2014, pp. 13-14.
  104. ^ Sentenza del Tribunale Militare di Roma, in data 01.08.1996 (processo Priebke). La corte argomenta che giuridicamente da tale invito «non poteva desumersi che il governo legittimo si fosse impegnato verso la Germania ad impedire ogni atto di ostilità contro i tedeschi. [...] Quindi è da escludere che le disposizioni dei suddetti generali potessero rendere l'attentato un atto di guerra non riferibile allo Stato italiano».
  105. ^ Longo 1973, p. 294.
  106. ^ Longo 1973, pp. 295-6. Lo storico Lutz Klinkhammer giudica tale documento «una fonte di fondamentale importanza per spiegare la crescita della Resistenza in Italia e della repressione contro di essa». Cfr. Klinkhammer 2007, p. 213.
  107. ^ Bandiera Rossa, 8 gennaio 1944, cit. in Benzoni 1999, p. 62.
  108. ^ Amendola e Bentivegna insigniti ieri della medaglia d'oro dai patrioti romani, in l'Unità, 25 aprile 1954.
  109. ^ Capponi 2009, pp. 239-240.
  110. ^ Bentivegna 2004, p. 118.
  111. ^ Dino Messina, Mazzantini e Bentivegna: noi, nemici, con tante cose in comune, in Corriere della Sera, 16 maggio 1996.
  112. ^ Amendola 1973, p. 293.
  113. ^ Portelli 2012, pp. 223-224.
  114. ^ Candeloro 1984, p. 271.
  115. ^ Bocca 1996, pp. 291-2.
  116. ^ Testimonianza di Albert Kesselring, riportata in: Portelli 2012, p. 211.
  117. ^ Portelli 2012, p. 211, che riporta in proposito un'annotazione, risalente al «giorno dopo la strage», tratta da Carlo Trabucco, La prigionia di Roma. Diario dei 268 giorni di occupazione tedesca (1945), Borla, Torino 1954, pp. 203-4: «La radio finora non ha fatto cenno [all'attentato] e i giornali sono muti».
  118. ^ Portelli 2012, p. 218.
  119. ^ Jo' di Benigno, Occasioni mancate. Roma in un diario segreto 1943-1944, Roma, Edizioni S.E.I., 1945, pp. 234-5.
  120. ^ Indro Montanelli, Boia e attentatori, una storia doppia, "Corriere della Sera", 25 novembre 1995.
  121. ^ Portelli 2012, p. 321.
  122. ^ Paolo Simoncelli, Via Rasella, partigiani avvisati? «Ecco la prova», "Avvenire", 17 marzo 2009.
  123. ^ Paolo Simoncelli, Il manifesto «scomparso», "Avvenire", 18 marzo 2009.
  124. ^ Luca Baiada, Fosse Ardeatine, guerra psicologica dal 1944, in "Il Ponte", nº 4, aprile 2014.
  125. ^ Lepre 1996, p. 48.
  126. ^ Lepre 1996, p. 22.
  127. ^ Lepre 1996, p. 27.
  128. ^ Lepre 1996, p. 29.
  129. ^ Lepre 1996, p. 29.
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  134. ^ Ranzato 2000, p. 421.
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  136. ^ Pezzino 2004, pp. 43-44.
  137. ^ Raiber 2008, p. 43.
  138. ^ Waitman W. Beorn, An Edifice of Lies: Kesselring and German War Crimes in Italy, Review of: Raiber Richard, Anatomy of Perjury: Field Marshal Albert Kesselring, Via Rasella, and the Ginny Mission, H-German, H-Net Reviews, November 2009.
  139. ^ Peli 2014, pp. 256-7.
  140. ^ Peli 2014, p. 257.
  141. ^ Peli 2014, p. 258.
  142. ^ Peli 2014, pp. 259-60.
  143. ^ Maurizio Assalto, De Luna: "Atto necessario per spezzare l'attesismo", in La Stampa, 3 aprile 2012.
  144. ^ Longo 1973, p. 240.
  145. ^ Quinta colonna trotskista, in l'Unità, gennaio 1944, n. 7.
  146. ^ Pierangelo Maurizio, Via Rasella, cinquant'anni di menzogne, Maurizio Edizioni, Roma 1996 et al.
  147. ^ a b Massimo Caprara, La «strage cercata» di via Rasella, in "Il Timone", anno 6 (2004) aprile, n. 32, p. 26-27.
  148. ^ Pierangelo Maurizio, Via Rasella. Un mistero che dura da sessant'anni, in Il Giornale, 10 agosto 2007.
  149. ^ Dario Fertilio, Via Rasella: perché i trotzkisti dissero no, in Corriere della Sera, 17 marzo 1998.
  150. ^ L'uso politico di via Rasella
  151. ^ Marisa Musu, Ennio Polito, Roma ribelle, Teti editore, Milano, 1999, pagg. 327-342
  152. ^ Portelli 2012, p. 330.
  153. ^ Portelli 2012, pp. 176 e 411 n.
  154. ^ Tribunale Penale di Roma, ordinanza di archiviazione, 16 aprile 1998, citata in: Portelli 2012, p. 411 n.
  155. ^ Sentenza del Tribunale Territoriale Militare di Roma n. 631 del 20 luglio 1948. Cfr. il testo della sentenza
  156. ^ Seconda Convenzione dell’Aia del 18 ottobre 1907, articolo IV "Leggi e costumi di guerra terrestre", annesso "Regolamenti relativi alle leggi ed ai costumi della guerra terrestre", sezione I, capitolo I, articolo 1. Cfr. testo in inglese o in francese.
  157. ^ Sentenza del Tribunale Supremo Militare di Roma n.1714, del 25 ottobre 1952, p.67. Cfr. il testo della sentenza, cit (pagina 67).
  158. ^ Sentenza delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione n.36 del 19 dicembre 1953, Cfr.[1]
  159. ^ Carlo Galante Garrone, Via Rasella davanti ai giudici, in AA.VV., Priebke e il massacro delle Ardeatine, supplemento a "L'Unità", agosto 1996.
  160. ^ Tribunale civile di Roma, sentenza del 26.6.1950.
  161. ^ Sentenza del Tribunale Supremo Militare di Roma in data 25 ottobre 1960. Cfr. [2]
  162. ^ Tribunale penale di Roma, ordinanza di archiviazione, 16.4.1998.
  163. ^ Sentenza della Corte Suprema di Cassazione n.1560 del 23 febbraio 1999. Vedi: [3]
  164. ^ Vincenzo Zeno-Zencovich, Il refuso che cambia la storia, in Domenica (inserto de Il Sole 24 Ore), 25 marzo 2012.
  165. ^ "Repubblica" online del 7 agosto 2007, "Cassazione: 'Via Rasella fu atto di guerra' - Il Giornale condannato per diffamazione"
  166. ^ la sentenza della Cassazione, 6 agosto 2007
  167. ^ All'interno della rivista Storia in rete del settembre 2007 fu pubblicata un'intervista all'ambasciatore Roberto Caracciolo, testimone di aver veduto un bando tedesco, affisso però solo nelle bacheche degli uffici tedeschi e non nelle pubbliche strade.
  168. ^ I partigiani di via Rasella non furono 'massacratori' - Adnkronos Cronaca

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]